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Hereafter

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Hereafter

di ROTOTOM
4 stelle

 Mystic River, Lettere da Iwo Jima, Un mondo perfetto, Million Dollar Baby, Gli spietati. In fondo Clint ha sempre parlato di morte. La morte eroica, la morte crudele, la morte beffarda. La morte sciocca, la morte inutile. La morte necessaria. La morte ingiusta. Aggettivi che non rendono più comprensibile il mistero dello spegnimento della scintilla vitale, solo lo esorcizzano trovandone una connotazione in grado di renderlo accettabile e per quanto possibile, evitabile. L’uomo tende all’immortalità per natura, coltiva la speranza e semina germi di memoria, lascia tracce e impronte genetiche. Per sua natura l’uomo si protende verso e oltre la morte che tolto qualsiasi aggettivo si rivela per quello che è. Il regno dei cieli per i credenti, il buio totale per gli atei, un passaggio, un ponte, un limbo, una sala d’attesa, una partita a scacchi, un giro di giostra, un paese dei balocchi, un treno, un luogo di mostri, una ricompensa con sette vergini, una reincarnazione in uno scimmione dagli occhi di brace.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Per Cesare Pavese la morte era il gorgo nel quale si precipita, muti. La speranza, alla quale il poeta si rivolge, si trasforma in morte portando con sé l’ultimo sguardo, i suoi occhi. Pochi segni delineano la potenza dell’immagine in cui il passaggio tra la vita e la morte è connotato da un solo verso in cui lo sguardo è il limite travalicato, verso l’abisso muto. Non c’è alcuna speranza nella poesia di Pavese ma c’è l’astrazione intellettuale che asciuga i sentimenti in concetti universali. Caratteristica che differenzia la poesia dalle opere puramente descrittive.

 Nel film di Clint Eastwood la speranza è la manifestazione fisica dell’aldilà, uno spazio parallelo al reale che accoglie spiriti pronti a lenire le solitudini dei viventi. Una visione raffazzonata che si accosta a quei  medium cialtroni, liberi professionisti del contatto spirituale che nel film vengono sottilmente derisi. Così il film si specchia nel suo tema e sprofonda. In un mare di parole. Uno tsunami. Non subito, intendiamoci. Ci si aspetta qualcosa che non arriva. E dopo poco tempo il film ha la consistenza fasulla del sogno impiastricciato nel suono della sveglia digitale.

 

La speranza si scioglie negli occhi di George/Matt Damon che ha il “dono” di mettersi in contatto coi morti, e ama alla follia Charles Dickens, uno che di fantasmi se ne intendeva. Un mediatore ultraterreno tra i due mondi, quello disperato dei vivi e quello pregno di pace dei trapassati ordinariamente locati là, nella luce bianca, intuibili dietro l’ideale schermo candido che divide la realtà dal suo corrispettivo irreale. La storia di George si intreccia con quella di una giornalista francese, Marie/Cécile de France che scampa allo tsunami in Indonesia  e di  un ragazzino, Marcus, che perde il fratello, unica guida di una famiglia devastata. Tre fantasmi a modo loro, in cerca di pace, di conferme e di conforto. Si fanno domande, spendono le loro vite cercando risposte in quel controcampo metafisico costantemente negato. Eastwood cammina sul crinale dell’irrazionale e sbircia, ammicca. Si cerca la commozione che non arriva. Si danno spiegazioni che non servono. Faticosamente si arranca in sviluppi narrativi che non convincono.

 

Tutta la parte di Melanie/Bryce Dallas Howard (peraltro bellissima) dal  corso di cucina nel quale conosce George fino l’appuntamento e la fuga della ragazza alla rivelazione del “dono”, appare sbrigativa, estranea al contesto, un  intermezzo didascalico che non aggiunge nulla al film. Ci sono altri momenti così, arrancanti verso una  posticcia chiusura che concentra le vite dei tre protagonisti in una risoluzione che vorrebbe essere poetica. Non lo è.   

 

Hereafter è uno squarcio sulla speranza dell’uomo, della sua non rassegnazione alla fine dell’esistenza qualsiasi essa sia. Quello che manca è la convinzione nel sostenere la tesi, debole la ricerca della messa in scena, sballottata da una sceneggiatura superficiale non all’altezza delle intenzioni. Elegante e sfilacciato. Troppo attento a non esagerare con l’aldilà e convenzionale nell’aldiquà, sembra accusare quel peso del tabù della morte che proprio nel film è combattuto dalla giornalista autrice del libro che da il titolo al film.

Paul Haggis sceneggiatore storico di Eastwood, scriveva drammoni grandiosi privi di qualsiasi ironia e dai contenuti assoluti, universali. Grondavano di sangue, viscere, passione e epica. Semplicemente Hereafter suona falso, la morte non si può bellamente rinchiudere in una tesi senza generare dubbi. La spiritualità viene mischiata in una semplicistica apparizione metafisica. Manca di astrazione, di sublimazione del dolore in una forma cinematograficamente comprensibile. Manca un commento musicale adeguato, Eastwood autore anche delle musiche sbaglia in pieno lo score, buttando lì i suoni a riempire i vuoti e fallendo proprio in ciò che nei suoi film migliori era un potente veicolo di emozioni. Il banale happy ending sembra clonato dal peggior Spielberg che guarda un po’, produce il film. Così sembra non crederci nessuno, prima di tutti Clint Eastwood e il suo sceneggiatore, Peter Morgan che creano un film che va a strappi, faticosamente concentrato sull’arrivo. E poi gli attori. Cécile de France, che gira tutto il film con lo sguardo sbigottito fisso nel vuoto, manco avesse visto un fantasma. Matt Damon, fermo, più inespressivo del solito. Costretto a spiegare la storia di un personaggio che non ha profondità, nonostante sia il protagonista.  Dickens non basta. Se non ci credono loro perché mai dovremmo crederci noi?

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