Regia di Michele Placido vedi scheda film
S’è parlato molto, forse troppo, del film di Michele Placido. Le ragioni sono chiare, spesso argomentate in modo abbastanza condivisibile, anche perché il rischio apologetico del film è alto. In ogni istante si sente come il bisogno di comprendere il criminale, o almeno di farcelo risultare simpatico. Vallanzasca, dopotutto, simpatico lo è pure, senza dimenticare l’efferatezza dei delitti da lui commessi. Non possiamo appellarci a nessuno se accattivante lo era di suo. Di certo si evita lo spettro dell’eroe romantico: più che altro, è un bandito che ha vissuto in modo spettacolare. E non è che Placido si faccia tanti problemi a difendere il soggetto del suo film. In ogni caso, lasciando perdere tutte le solite polemiche che vengono fuori quando escono film del genere (il problema sta nei ragazzini idioti che non sanno scindere realtà e finzione, romanzo e cronaca, gli stessi ragazzini che idolatrano Totò Il Capo Dei Capi Riina e grazie a storie così si sono costruiti un proprio codice d’onore alquanto discutibile), c’è da dire che rispetto a Il grande sogno Michelone fa un deciso passo avanti, mettendo in soffitta la retorica spicciola che rimpiangeva i bei tempi andati, quando si andava in piazza a far a botte e si scopava alla grande, e fa un timido passo indietro rispetto a Romanzo criminale, che resta a tutt’oggi il suo capolavoro (ma che gli è certamente sfuggito di mano nella fruizione, dato che ormai il romanzo di De Cataldo è diventato un franchising e Libano, Dandi e Freddo sono i miti della mia generazione).
Dell’equilibrio tra epica e cronaca che aveva reso Romanzo criminale uno splendido affresco della delinquenza romana ambiziosa ed ubriaca di se stessa qui c’è una volontà di incidere maggiormente sulla prima, non riuscendoci. Voglio dire, nella sua inappuntabile perfezione (la giusta fotografia livida di Arnaldo Catinari, il giusto montaggio nervoso di Consuelo Catucci, le giuste musiche dei neofiti Negramaro) a Vallanzasca non manca praticamente nulla, sceglie anche di presentare il suo protagonista in una veste crudele (l’uccisione dell’infame, traditore, cinico e tossico amico d’infanzia – impersonato da un eccellente Filippo Timi – è dura da digerire, anche se a parlare sono le ragioni dell’etica criminale) e ne mette in risalto la bastardaggine insolente. L’unica cosa che davvero gli manca è quella più fondamentale: gli manca il senso del racconto. Meccanico qua e là, a volte superficiale, qualche indugio di troppo sul sangue (che n’è scorso tanto, ma Placido se ne compiace quasi di metterlo in scena con tale spietata verità) e tre o quattro passaggi oscuri (secondo quali modalità nasce la batteria?
Perché Vallanzasca e Turatello, protagonisti di una clamorosa guerra per le vie di Milano, diventino amici per la pelle in carcere? Possibile che i carabinieri siano stati così imbecilli da farsi scappare un bandito da trecento anni di carcere? Perché Vallanzasca decide di farsi intervistare da Radio Popolare?), che alla fine risentono di una grande assenza: l’aria del tempo, il contesto storico e sociale. Alla sceneggiatura, forse, hanno messo mano in troppi. Comunque sia, il film si lascia vedere con la fluidità del poliziesco e la solidità del gangster movie, vivendo dell’interpretazione dilagante e misurata al contempo, straordinaria e magnifica di Kim Rossi Stuart, romano di nascita ma credibilissimo in versione milanese, lontano anni luce dalla macchietta ed immerso dentro il personaggio in maniera stupendamente irrequieta. In America gli avrebbero dato l’Oscar. Rossi Stuart sta al cinema italiano contemporaneo come Gian Maria Volontè stava agli anni settanta.
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