Regia di Mario Martone vedi scheda film
Amarissimo ritratto del Risorgimento, realizzato senza concessione alcuna né all'epica né tantomeno alla retorica che spesso ha infarcito i libri scolastici (almeno fino a qualche anno fa) ogni qual volta si trattava di affrontare questo periodo storico.
E questo è sicuramente un grande merito di questo film, una pellicola cui va riconosciuta una grande onestà intellettuale. Emblematiche da questo punto di vista due scene: una, quasi all'inizio, in cui gli abitanti di un villaggio subiscono le angherie di un drappello di soldati borbonici, con esposizione della testa mozzata di un presunto facinoroso antimonarchico, e una successiva (che troviamo a circa due terzi del film) in cui gli abitanti di un altro villaggio subiscono la rappresaglia dei bersaglieri savoiardi in una operazione antibrigantaggio. In entrambi i casi il risultato è che alle case di quei poveri contadini viene appiccato il fuoco: cambiano le insegne sotto cui agisce il potere ma nulla è cambiato per la povera gente.
Altro episodio di grande significanza: nel carcere di Montefusco vengono imprigionati gli antiborbonici che passano le giornate a tramare e a progettare futuri piani, ma sono tutti esponenti della nobiltà. Nei confronti degli altri detenuti che chiedono notizie del mondo esterno c'è un atteggiamento di chiusura e a nulla valgono le parole di Domenico,il protagonista, (il sempre bravo Luigi Lo Cascio) sul fatto che sia giusto riconoscere dignità a chi con loro sta condividendo le sofferenze della prigionia.
Martone riesce a sottolineare tutte le contraddizioni del Risorgimento, un evento che non fu una sollevazione di popolo, quasi sempre estraneo e spettore passivo di tutte le vicende che portarono all'unità d'Italia, bensì un movimento e un ideale che scaturì da frange dell'aristocrazia (grande risalto nella prima parte viene dato alla Principessa di Belgiojoso esule a Parigi e finanziatrice dei rivoluzionari) e dall'alta borghesia.
Né fu un qualcosa di omogeneo: Domenico, e gli amici Angelo e Salvatore, vogliono un cambiamento totale, credono negli ideali Repubblicani, sono mazziniani ma si troveranno al fianco di chi ambiva all'unità anche sotto le insegne di un altro Re (i Savoia, bigotti anche più dei Borbone come dirà Domenico ai compagni di prigionia).
Se storicamente Noi Credevamo è un film di alti meriti, purtroppo da un punto di vista prettamente cinematografico presenta invece parecchi difetti: una narrazione troppo slegata e disomogenea che porta spesso lo spettatore a trovarsi disorientato nel susseguirsi degli accadimenti. Certamente l'impresa di raccontare, come ha fatto Martone, una storia del Risorgimento attraversando oltre mezzo secolo di accadimenti, episodi e avvenimenti di ogni sorta e spesso slegati fra loro, è una fatica improba, ma questa se da una parte può essere una giustificazione, risulta pure dall'altra un limite della pellicola.
Un'ultima annotazione: solo Mazzini delle tre figure fondamentali del Risorgimento ha un certo rilievo, di Cavour non si parla praticamente mai mentre Garibaldi appare come una figura lontana a sfondo dei tragici fatti dell'Aspromonte, dove l'Eroe dei Due Mondi venne ferito e poi curato (questo ce lo dice la Storia dei libri) con consulto di medici e specialisti fatti venire addirittura da fuori Italia, mentre i suoi uomini (questo ce lo racconta il film) venivano passati alle armi come disertori.
Memorabili almeno due scene: quella in cui Angelo, condannato a morte per l'attentato a Napoleone III chiede al prete non l'assoluzione ma il motivo per cui il Papa non voleva rinunciare al potere temporale (è noto agli storici che molti cattolici dell'epoca, tra cui Alessandro Manzoni, ritenenvano che il potere temporale della Chiesa fosse un tremendo limite al suo potere spirituale) con conseguente mutismo del prelato, e quella, attualissima, finale in cui, sotto lo sguardo attonito di Domenico, l'ex repubblicano e rivoluzionario Francesco Crispi, ormai parlamentare, si infervora in un discorso che è la pura negazione degli ideali per cui si era battuto in gioventù. Verrebbe da dire: "niente di nuovo sotto il sole"
Cilento 1828: Domenico e Angelo, figli della nobiltà, e Salvatore, figlio del popolo, condividono ideali di democrazia e libertà e si votano alla Giovine Italia. Attraverso le vicende delle loro vite si fa rivivere quell'esperienza intricata, contraddittoria e dai risvolti speso imprevedibili che oggi chiamiamo Risorgimento.
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