Regia di Mario Martone vedi scheda film
“Noi credevamo” non ricostruisce gli eventi precedenti all’unità di Italia, bensì scoperchia catacombe da cui fuoriescono fantasmi e visioni allucinate; non si tratta neppure di una diagnosi illustrativa delle cause lontane dei mali immarcescibili del nostro Paese, bensì di una discensio ad inferos, desultoria e frammentata, nelle viscere del passato testimoniata da tre giovani idealisti del Cilento. Un viaggio senza ritorno dunque, fra celle fetide e deliri folli, al quale sopravvive solo la coscienza lucidamente disperata di Lo Cascio, l’unico superstite a cui sia consentito dopo anni da esule di penetrare nel cuore pulsante della Nazione e viverne sulla propria pelle la disfatta dopo la presunta liberazione dal giogo tirannico. La pellicola avvolge lo spettatore in un nebbioso labirinto di tenebre, dove i sogni hanno i colori e i suoni degli incubi e i progetti utopici degli intellettuali appena usciti dai salotti aristocratici si tingono di sangue innocente e miseria: un groviglio di passioni e trasformismi, di velleità rivoluzionarie e compromessi dettati dalla realpolik, nel quale l’analisi storica è offuscata in ogni sequenza dal dolore impotente di chi riconosce nell’alba di ieri il tramonto di oggi.
In “Noi credevamo” l’oggettività del saggio critico con le sue note verità resta di fatto uno sfondo su cui si stagliano a livello di quadri icastici le ragioni concrete di una disillusione e di un tradimento: il volto pietrificato della madre di Lo Cascio, la spossatezza scettica della Principessa di Belgioioso, l’ammasso di cadaveri di contadini inermi parlano di un popolo non sfiorato dal mito del Risorgimento o di un Sud offeso da un Nord conquistatore e rapace. Il lungometraggio ribalta volutamente il sistema dei personaggi dei manuali scolastici di Storia, affidando a figure oscure di vittime dimenticate il ruolo di protagonisti e allontanando dal campo di battaglia i cosiddetti grandi: Garibaldi, Cavour, i Savoia sono ombre assunte a puri simboli, Mazzini e Crispi vengono evocati esclusivamente nel drammatico momento del redde rationem; il primo è tormentato dagli spettri dei martiri da lui ispirati, l’altro parla dagli scranni di un Parlamento macabramente vuoto, icona del cinico trasformismo della politica di tutti i tempi. “Noi credevamo” dà voce ad una disfatta civile e forse svela il segreto dell’Italia di oggi: il senso di colpa. “http://spettatore.ilcannocchiale.it
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