Regia di Ascanio Celestini vedi scheda film
Davanti al reparto surgelati di un supermarket con la bocca aperta a imitare un pesce che neanche da vivo poteva parlare. Ascanio Celestini nel riflesso di un neon azzurro elettrico è la voce off di un manicomio espanso (famiglia, scuola, chiesa, centro commerciale), figurina astratta, catatonia dell’essere, solo in quell’angolo buio del subconscio che tutti preferiscono non visitare. Il doppio sogno di Schnitzler, o la «coscienza del disorientamento» che richiede la cecità e l’atonia per ricominciare a vedere. Così Celestini crea una macchina a incastri di memoria, tre set ognuno con il suo colore, per ricostruire una vita. Quella di Nicola, il bambino bellissimo maltrattato da padre e fratelli, mamma “svanita” nel coma di un ospedale psichiatrico dove trauma dopo trauma, come un piccolo Oliver Twist, finisce per trovare asilo. Ed è il giardino selvaggio del Santa Maria della Pietà, il “condominio dei santi” che insegna a fare miracoli, il suo punto di osservazione. Poi l’interno immobile, inquadrature oniriche, un termosifone solenne in fondo al corridoio e uno stanzone buio attraversato da fantasmi di uomini, suore e di un amico immaginario (Giorgio Tirabassi), alter ego di escursioni erotiche. E infine lo spazio accecante del supermercato abitato dalla sua madonna, Mariolina amata fin dall’infanzia, la ragazza che serve il caffè ai clienti, una Maya Sansa di grande splendore. La pecora nera, passato in concorso alla Mostra di Venezia 2010, è una meravigliosa invenzione, indipendente dal libro e dallo spettacolo teatrale, e va al di là dei celebri monologhi dell’attore regista (autore della sceneggiatura insieme a Ugo Chiti e Wilma Labate). Ascanio Celestini ci accompagna di istallazione in istallazione in un tour visionario, dove i “matti” creano geroglifici di comicità, dolore e compassione. Un album poetico, antinaturalistico, lontano dalla docufiction, un film ritmato sulla ballata vocale dell’attore, che si decentra dallo schermo e lascia la scena a una storia crudele ma con un suo happy end. Il piacere di uno sguardo fuorilegge che nel mondo reale rischia sempre il manicomio.
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