Regia di François Truffaut vedi scheda film
Contrariamente a quanto possa apparire, col suo turbine di tormentate passioni e di eros malandrino, è uno dei film più lieti e brillanti di François Truffaut, qui particolarmente (e spudoratamente) selvaggio. Non tanto per il tono, quanto per la messinscena e quel che c’è dietro. Nonostante la versione italiana che circola sia martoriata di più di venti minuti, l’intento del film riesce a trasparire comunque. Partendo da un romanzo di Irish (che Antoine Doinel legge nel precedente Baci rubati – ennesima dimostrazione di come il personaggio di Leaud rappresenti la proiezione filmica del divenire del regista), Truffaut vuole realizzare un fotoromanzo d’autore, dove la storia non necessariamente deve rispondere a criteri di sensatezza o di normalità, ponendo al centro del racconto il tema capitale non solo del suo cinema, ma dell’intera vita: l’amore, il quale , se è vero che può connotarsi di venature folli od anche totalizzanti (si legga alle voci Jules e Jim o Adele H.), si caratterizza qui di una palese connotazione sfacciatamente gioviale nel suo finto precipitare degli eventi.
È sì un film sull’amore che fa male (di cui Louis-Belmondo è la vittima predestinata), ma anche un film sull’amore che impone il suo volere nel destino altrui: dapprima Julie/Marion-Deneuve non ama Louis, e solo alla fine si rende conto di essere stata travolta dal sentimento; così Louis, che subito dimentica la miriade di contraddizioni che si presenta nella moglie (se non altro perché lei non è la vera moglie prescelta), fino ad accettare di uccidere e di morire a causa del folle amor.
Ciò che potrebbe trasparire da un film apparentemente banale e al contempo tracimante (banale perché, fondamentalmente, non dice nulla di nuovo; tracimante perché si addensano moltissimi elementi che ne distinguono fortemente la natura) come questo, è l’ombra pretestuosa della storia: in realtà la storia è funzionale e vitale per l’economia filmica di un’opera del genere, dove tutto è congeniato per realizzare un determinato obiettivo. Variegata contaminazione di generi (c’è di tutto: il noir, il giallo, il mèlo, la commedia, l’avventura, il dramma) e perfettamente in stile truffautiano (personaggi che leggono libri, vanno al cinema, si arrangiano per vivere), La mia droga si chiama Julie (titolo stravagante se si pensa a quello originale, altrettanto strambo, La sirena del Mississippi) è un gioco cinefilo per cinefili in cui si concentrano gli amori del suo mentore, da Jean Renoir (a cui il film è dedicato) a Fritz Lang. Spadroneggia, però, l’omaggio vistoso ed incessante ad Alfred Hitchcock, dal canarino in gabbia de Gli uccelli alla Marion di Psyco fino al bicchiere avvelenato che Marion offre a Louis, i cui echi non possono che riportare a Il sospetto. Finale aperto ad una nuova speranza, con i due (finti) (anti)eroi che si avviano “verso la vita” alla ricerca di una “grande illusione”. Così, tanto per citare.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta