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La solitudine dei numeri primi

Regia di Saverio Costanzo vedi scheda film

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La recensione su La solitudine dei numeri primi

di ROTOTOM
6 stelle

Come sempre succede nelle trasposizioni cinematografiche di testi letterari entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo vuoi per meriti, vuoi per marketing quale è il caso di La solitudine dei numeri primi, libro pluripremiato di Paolo Giordano, la curiosità principe è quella di verificare se le immagini corrispondano alla pagina scritta. Come se la visione del regista collimasse con le centinaia di migliaia diverse sensibilità dei lettori. Questo può succedere, se si è Kubrick magari,  capace di condensare il senso del testo elevandolo ad astrazione intellettuale senza adeguarsi alla comune percezione così da riscriverlo in toto fondando un nuovo immaginario collettivo.

 Peccato che Saverio Costanzo, pur bravo, non sia Kubrick. Peccato altresì che questa mera disputa da sala d’attesa di parrucchiera, visto il target nazional popolare del libro, sia sbagliata fin dal suo fondamento ma nel contempo funzionale alla divulgazione dell’oggetto-libro product placement dell’oggetto- film e viceversa. Una joint venture che porta guadagni, spettatori, mercato ma che allontana la comprensione del testo filmico in quanto tale poiché agganciata in modo simbiotico al testo letterario e valutato per differenza.

La solitudine dei numeri primi ha dalla sua parte un titolo stupendo, evocativo di una sensualità decadente che non può non affascinare e attrarre. Il numero primo è un numero divisibile solo per uno e per se stesso. Più difficile rappresentare i numeri primi in tutto il loro dolore e far collimare le cicatrici dell’anima a quelle del corpo. Mattia e Alice sono due adulti mutilati nell’animo da esperienze traumatiche vissute nell’infanzia, la consapevolezza di essere diversi li porta a isolarsi dal resto della società salvo riconoscersi l’un l’altro  tentando di trovare un surrogato di felicità nell’attesa che la pena di una vita monca finisca. Costanzo imposta il film come un horror psicologico, a partire già dalla bella scena iniziale della recita scolastica – Il labirinto di Minosse, recita profetica del prossimo smarrimento-  dalla messa in scena cupa dalla fotografia lisergica e acida che trasforma i bambini in piccoli mostri; atomizzazione dei particolari e colonna sonora potente dei Goblin. Quello che Argento non fa più da anni eccolo presente in Costanzo  che opta per una costruzione non lineare dell’intreccio. La storia si dipana in tre blocchi temporali – infanzia, adolescenza e maturità- scanditi alternativamente in frequenti flashback. Questo andare e venire giova al film che acquista un’aura onirica, una continua risacca ipnotica, pacata e triste che avviluppa e suggerisce le cause dell’implosione di Mattia all’interno di se stesso, stritolato da un senso di colpa più grande della responsabilizzazione coercitiva alla quale viene sottoposto dai genitori, e di  Alice bambina sensibile offesa nel corpo e nella mente dalla condotta irresponsabile prima del padre e poi della madre.

Tutta la prima parte è sostenuta da un controllo rigidissimo delle scene, quasi replicante la mancanza di sentimenti dei due protagonisti ma al contempo non pienamente coinvolgente benché, grazie alla capacità evocativa di Costanzo, alcuni momenti siano di grande impatto emotivo. La sensazione è che il regista non abbia avuto il coraggio di seguire una propria idea esclusiva per lo sviluppo della storia e si sia barcamenato – soprattutto nella scrittura del film, in collaborazione con Paolo Giordano - tra l’ordinario e il visionario, avendo forse un po’ paura di deludere le attese. In effetti le cose migliori si hanno proprio nella rappresentazione onirica e surreale dell’horror vacui dei due protagonisti supportate dalla straniante elettronica della colonna sonora di Mike Patton dei Faith no More, mentre si annacqua nell’ordinario nelle scene necessarie all’avanzamento del racconto.  Si rimane in bilico fino al finale all  Rohrwacher dove il racconto si sfilaccia e si dilunga senza trovare una giusta corrispondenza con tutta la parte precedente, una sforbiciata di un quarto d’ora avrebbe giovato sicuramente alla tenuta drammatica risolta nello svelamento finale dei due traumi adolescenziali, vissuti in parallelo e ricostruiti come risoluzione di un enigma vissuto a posteriori. Si parla poco, e questo è un bene, nei confronti di tanto cinema soprascritto ed esplicativo la ricerca  della rarefazione delle parole nei confronti delle immagini è lodevole. 

 Fortemente simbolico il film riporta gli archetipi horror delle fiabe nella quotidianità dei personaggi – Il clown, il bosco, la matrigna- ed è costruito sui corpi in trasformazione: Alba Rohrwacher, in uno spettrale nudo integrale (vero momento horror….)  e Luca Marinelli dalla fissità catatonica che ricorda la gioiosa vitalità di Michael Myers in Halloween di Carpenter.  Isabella Rossellini appesantita e invecchiata appare invece dotata di una rinnovata espressività. Ritornano suggestioni kinghiane nello spaventoso clown –interpretato dal bellissimo cammeo di Filippo Timi- e nell’ “Overlook hotel” teatro del trauma di Alice. Su tutta l’operazione aleggia comunque un senso di insicurezza, di non piena decisione nella direzione da prendere, soprattutto nel finale. “Non aspettatevi il Gattopardo” disse un nervosissimo Costanzo alla prima a Venezia mettendo le mani avanti e ratificando la difficoltà di tradurre un testo sotto la lente di ingrandimento di migliaia di potenziali spettatori. Soddisfa a metà, La solitudine dei numeri primi, anche se tensione e angoscia non mancano. Non so se soddisferà i cultori del libro, personalmente non l’ho letto. Lascerà un po’ l’amaro in bocca per l’occasione non totalmente sfruttata a chi del libro sa poco e dal film si aspetta qualcosa di forte. In ogni caso, dopo decine di filmacci su paturnie generazionali, ben venga questa plumbea storia di dolore.

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