Regia di Saverio Costanzo vedi scheda film
Il romanzo di una generazione, come recita il flano del film, è diventato un film confuso. Chi ha letto il libro è uscito deluso, chi non l’ha letto ne è rimasto spaesato. Partendo con un incipit in cui molti hanno ritrovato il migliore Dario Argento (con le musiche alla Goblin – il resto della colonna sonora è curato da Mike Patton, ottimo), La solitudine dei numeri primi (titolo meraviglioso che allude alle coppie di numeri primi, divisi da un solo numero, troppo distanti per essere uniti davvero) formato cinema dà una personale interpretazione (autorizzata dall’autore del libro, Paolo Giordano) della storia originaria, mettendo su una struttura narrativa che utilizza la tensione come cifra esistenziale, mescolando il passato col presente, il vissuto col vivente, l’idea con il fatto. Giunto al terzo film dopo gli ostici Private e In memoria di me, Saverio Costanzo non si smentisce e costruisce un altro film estremo, che di estremo ha il linguaggio nelle sue molteplici forme, sia stilistiche che umane, che riguardano sia l’oggetto filmico che l’ente narrativo. È un film che lascia turbati per un motivo ben preciso: trasmette ansia, un’ansia pesante ed angosciosa, funesta e mesta. Sin dall’inizio, con quei titoli blu sparati sullo schermo e non particolarmente visibili (perfino le innocue scritte vorrebbero nascondersi tra le immagini, come del resto tutti i personaggi faranno nel corso della storia), capiamo perfettamente che aleggia il fardello di un fantasma, o peggio ancora di un’intera casa degli spiriti.
Si entra piano (e male – problemi di sceneggiatura ben evidenti specialmente nel percorso di arrivo all’inconfessabile verità e nel verboso finale) dentro il film, dentro una storia in cui regna il dolore mentale e fisico, corporeo ed incorporeo (figli scomparsi, incomunicabilità, tagli autolesionistici, anoressia, mutamenti fisici, incidenti), e una volta che si accettano le atmosfere tormentate Costanzo cambia registro, in un gioco a rimpiattino in cui si sfidano la tragedia greca e l’horror dell’anima, il thriller esistenziale e il dramma familiare. Ma in questo fosco romanzo di (de)formazione abitato da ombre e inquietudini non tutto funziona: non funziona perfettamente la costruzione a flashback, non funziona perfettamente il (poco) equilibrio tra freddezza (troppa) e pathos (poco), non funziona perfettamente il clima gotico-depresso. Costanzo osa, e pure parecchio, un film imperfetto e gli va riconosciuto il merito di aver voluto sparigliare le carte ed offrire la propria versione di una storia universale che, piaccia o no, non lascia indifferenti. Se Alba Rohrwacher rischia di essere intrappolata ancora a lungo nella parte della disadattata di turno (pur facendo registrare sempre una prova esimia), è la clamorosa rentrèe italiana di una titanica Isabella Rossellini, mater dolorosa ed oscura, a lasciare il segno.
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