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The Ward. Il reparto

Regia di John Carpenter vedi scheda film

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Eric Draven

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Ward. Il reparto

di Eric Draven
5 stelle

 

The Ward è un film considerato del 2010, sebbene dobbiamo essere precisi in merito. Fu presentato in anteprima mondiale, infatti, al Toronto International Film Festival il 13 Settembre, appunto, del 2010. E poi subito dopo, da noi in Italia, al Torino Film Festival, il 28 Novembre dello stesso anno. Uscendo però nei nostri cinema, distribuito dalla BIM, il primo Aprile del 2011. Vietato ai minori di 18 anni per via delle molte scene violente e splatter. Negli Stati Uniti invece, vista la freddissima accoglienza della Critica e lo scarsissimo successo di pubblico ottenuto in Europa, è stato immediatamente confinato al mercato home video. Saltando a piè pari la distribuzione in sala.

A tutt’oggi, è l’ultimo lungometraggio di John Carpenter, che, da quel lontano 2010, non ha più diretto nessun altro film. E immensamente me ne dispiaccio perché, se The Ward dovesse rimanere l’ultima sua pellicola, non posso obiettivamente affermare che John si sia congedato dalla regia cinematografica con un’opera indimenticabile. Tutt’altro.

A nove anni di distanza da Fantasmi da Marte, insomma, noi suoi estremi ammiratori sfegatati non abbiamo potuto che rimanere un po’ delusi dal suo ritorno. Stanley Kubrick, quando uscì “postumo” con Eyes Wide Shut, fece intercorrere più di un decennio dalla sua precedente opera, Full Metal Jacket, ma il suo comeback fu decisamente in linea con le enormi aspettative di noi cinefili, perché Eyes Wide Shut, ça va sans dire, è incontestabilmente un capolavoro. E tanta enorme attesa fu ripagata appieno.

No, non fraintendetemi, The Ward non è affatto un brutto film, è un gioiellino figlio del suo autore, con tutti i suoi splendidi crismi, una sua creatura a tutti gli effetti, ma devo essere equanime e indubitabilmente imparziale nel criticare i suoi tanti ed evidenti difetti, e non posso esimermi dall’essere un po’ duro, per quanto mi stringa il cuore fare ciò.

No, siamo molto lontani dai suoi capolavori. E si mettessero l’anima in pace i fan irriducibili di John (ai quali peraltro io stesso mi annetto ma dai quali, a causa della mia coerente obiettività schietta, stavolta mi dissocio), se qualcuno osa dir loro che, anziché difendere a spada tratta questo film, per puro, istintivo amore viscerale, spassionato e romanticissimo nei riguardi del suo comunque impareggiabile autore-maestro (si sa, l’amore è cieco e irrazionale), oscurati dalla loro irrimediabile idolatria che non vuol sentir ragioni, continuando orgogliosi a sostenere che anche The Ward, appunto, sia un’opera massima e incriticabile, dovrebbero essere molto più onesti e guardare in faccia la realtà.

No, capolavoro non lo è. Minimamente.

La trama è parossisticamente semplicissima. Ah, premetto che, se vorrete continuare nella lettura di questa mia recensione, gli spoiler abbonderanno a dismisura, quindi, se non avete (imperdonabilmente!) visto il film, astenetevi dal proseguire perché vi dirò tutto.

Una ragazza di nome Kristen (Amber Heard), dopo aver dato fuoco a una vecchia fattoria, viene internata. Sì, vien trascinata con la forza in un lugubre ospedale psichiatrico. Kristen, rinchiusa e sedata in maniera coatta, tenterà in ogni modo di giustificare la sua sanità mentale, cercando di dimostrare che il suo internamento è soltanto figlio di un madornale equivoco. Nel frattempo, stringerà amicizia con altre giovani pazienti ricoverate lì oramai da una vita. E ben presto si accorgerà che il reparto nasconde un orribile segreto, perché via via le ragazze, a una a una, spariranno nel nulla. Sì, inspiegabili sparizioni avverranno, di notte, al tonar crepitante e tremebondo dei fulmini, e un’inquietantissima figura di donna-zombi attenterà all’incolumità delle ragazze, apparendo a Kristen più e più volte in maniera allucinatoria.

Kristen è davvero pazza e soffre di deliri allucinativi oppure il manicomio è realmente un posto mostruoso ove si cela, acquattato al buio, il babau delle nostre paure più inconsce?

Un babau che par provenire dai mostri di Wes Craven, un viscido, inafferrabile incubo a occhi aperti che, nel nightmare terrorizzante dell’insondabilità profonda, si anima di forza ancestrale e divora i suoi figli più cari, inghiottendoli nella sua bramosa, luciferina, putrefacente orridità.

Ma poi ci sarà l’imprevisto coup de théâtre, il twist finale, chiamatelo molto più banalmente inaspettato e rivelatorio colpo di scena, che mischierà tutte le carte in tavola, fornendoci una prospettiva retrospettivamente esegetica dell’intera storia.

 

The Ward... un film uscito con qualche mese di ritardo rispetto all’analogo Shutter Island, soltanto per diverse logiche distributive ma probabilissimamente girato in contemporanea al film di Scorsese, quindi non si può imputare a Carpenter la “colpa” di aver copiato dal film con DiCaprio. Ma possiamo certamente asserire in tutta franchezza che l’espediente della sconvolgente rivelazione finale è oramai abusatissimo, e Shyamalan docet, ma Hitchcock n’è stato fautore e il capolavoro incompreso di Alan Parker, Angel Heart, è a mio avviso in questo senso un modello tutt’ora insuperato di finezza strutturale, una vetta ancora magneticamente irraggiungibile, un congegno a orologeria ben più plausibile e strutturato di The Ward. Che invece, anche a una seconda visione, lascia perplessi riguardo alla verosimiglianza della vicenda narrata e presenta dei buchi narrativi impressionanti che, con tutto il bene che possiamo volere a Carpenter, ci lasciano assai fastidiosamente interdetti.

The Ward è insomma un filmetto ammantato di autorialità solo per il fatto di essere stato diretto da un innovatore, da un gigantesco pioniere del new horror, da un istitutore avanguardistico dei meccanismi della suspense, che anche in questo caso comunque funziona a meraviglia, o è un’opera da amare a prescindere, a torto, perché appunto generata, firmata, ideata e sigillata dal suo colossale, imbattibile poeta-autore?

The Ward si apre con dei magnifici titoli di testa e pare un film anni ottanta spu(n)tato nell’anacronistico 2010.

E a sessantadue anni (tanti ne aveva quando ha girato questo film) John Carpenter dimostra ancora di saper stilisticamente reinventare i suoi stessi topos, che da Dark Star in poi sono stati, immarcescibilmente, un suo riconoscibilissimo marchio di fabbrica. Col solito stilema, qui à la page, di un posto chiuso e claustrofobico senza vie di fuga che soffoca i protagonisti delle sue storie, costretti a combattere spesso contro una minaccia invisibile, assediati da forze misteriosamente invisibili e fantasmatiche. E John è come sempre affezionato alle sinistre e anguste strutture psichiatriche perché, ricordiamolo e ribadiamolo, Michael Myers di Halloween fuggì da una di queste prigioni dell’anima, seminando terrore e panico, Sam Neill de Il seme della follia venne ghettizzato a livello manicomiale, e Jena Plissken dovette combattere per la sua vita in una grandissima prigione pazzescamente asfittica, New York, mentre in Distretto 13 era già racchiusa esemplificativamente in maniera acutissima tutta la summa di un altro attinente, stilistico e filosofico suo tratto distintivo immancabile, quello dell’uomo, abbandonato in un “bunker” quasi, oserei dire, metafisicamente sganciato dall’esterno, costretto a sopravvivere dinanzi all’ignoto incombente che salta fuori dal nulla. E lo opprime fra le barriere di una sorta di carcere infernale, soffocandolo, straziandolo.

E The Ward diventa quindi, ancora una volta, un metaforico, pessimista, nerissimo film sulla società. Perché la società stessa, con le sue insindacabili regole falsamente, (a)moralmente coercitive, è un grande, accerchiante manicomio da cui, pare dirci John sardonicamente, nessuno può scappare. Siamo liberi, come individui, a livello puramente fantasioso e illusorio ma, chi più chi meno, siamo tutti schiavi degli ingranaggi sociali, ideologici, educativi, pedagogici, lavorativi e persino famigliari.

Come diceva al solito illuminatamente Carmelo Bene... a sua volta citando Deleuze:

 

On n’échappe pas de la machine... non si sfugge da-alla macchina.

Chi sceglie la libertà, sceglie il deserto. Se la democrazia fosse mai libertà. Ma la democrazia non è niente, è mera demagogia...

Non si scappa. Uscendo dalla catena di montaggio, la macchina, la catena di montaggio si fa ancora più forte nella vostra strada che percorrete, poi nel tram, poi in auto, poi a casa, in famiglia... aumenta ancora, si fa sentire l’oppressione della catena di montaggio, si fa sentire il nulla della vita. L’oppressione... financo nell’amore, nella rivoluzione ancora di più e, soprattutto, l’oppressione si sente, si risente, nell’entusiasmo...

 

Kristen è Alice, Alice è Kristen, Alice è ora guarita. Da cosa in realtà è guarita? Da nulla. Fittiziamente guarita. Perché dallo specchio, lo stesso specchio disgregato, frantumato, spezzato della sua memoria, lo specchio dei titoli di testa, dall’ambiguo specchio figlio de Il signore del male, che si fa qui congiunzione tangibile ed ectoplasmatica diabolicamente inestirpabile, personalità multipla mentalmente invincibile che ora puoi toccare, vedere e guardare negli occhi, echeggerà sempre il mostro maligno della nostra aberrante condizione umana.

Perché, dopo aver passato tutta l’adolescenza chiusa in manicomio, a vivere di una sua immane, delirante fantasia, Alice può adesso tornare alla vita normale, riabbracciare i genitori, è stata dimessa dalla (sua) struttura, dalla sua follia ma, invero, il mondo che l’aspetta là fuori, il mondo che a noi tutti pare rassicurante e tranquillo, è solo un’altra propagazione del manicomio stesso, un manicomio più esteso e ancor più subdolo, strozzante, un posto terribile che toglie il respiro. Ancor più inconsciamente agghiacciante e crudele. Che non ci seda farmacologicamente, ma ove non potremo mai essere pienamente, entusiasticamente liberi, ove saremo perennemente ricattati e compressi da chiunque, insidiati e assediati, soprattutto avviluppati dai nostri demoni interiori.

In questa chiave interpretativa allora The Ward è un film carpenteriano, ed è un grande film.

Nel resto, nell’assurda e insostenibile illogicità narrativa, nelle figure di contorno, scialbe, tagliate con l’accetta, incolori e caricaturali, improponibili come nel caso dello psichiatra-direttore, è un film già visto, se non addirittura imbarazzante e ridicolo. Nelle scene truculente simili al peggior Cinema di Rob Zombie.

Sceneggiano i fratelli Rasmussen, Michael e Shawn, e il film dura 1h e 29 min. La fotografia, alle volte perfino un po’ patinata, è di Yaron Orbach, ma grazie a quel sopraffino metteur en scène, ch’è Carpenter, diventa non poche volte notevolmente, suadentemente pittorica, mentre la bellissima scenografia di Paul Peters, che sfrutta il vero Eastern Washington State Mental Hospital, rimembra l’Overlook Hotel, appunto, del kubrickiano, immortale Shining.

Il ruolo dello psichiatra Gerald Stringer è interpretato dal figlio di Richard Harris, Jared, mentre una delle giovani ragazze, Emily, è interpretata da Mamie Gummer, figlia di Meryl Streep e dello scultore Don Gummer.

La cattivissima infermiera Lundt è interpretata alla perfezione da Susanna Burney, ed è chiarissimo che sia l’omaggiante reincarnazione della memorabile, devastante Louise Fletcher di Qualcuno volò sul nido del cuculo.

 

 

 

di Stefano Falotico

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