Regia di Paul Haggis vedi scheda film
Paul Haggis è un militante delle idee. Mercenario della scrittura per la serie interpretata da Chuck Norris, il nostro ha raggiunto un successo tardivo ma solido perché corroborato da una base che è farina del suo sacco. Insomma un vero autore, di quelli come piacciono all’Europa e soprattutto all’Italia. Uno che se la scrive e se la canta nonostante un ambiente che preferisce avere sempre in mano gli strumenti e lo spartito. Ed allora, se così stanno le cose come può essere che un artista con le sue caratteristiche si lasci coinvolgere nel progetto di un altro, in un remake (“Pour elle” con Vincent Lindon e Diane Kruger) ancora fresco di cadavere essendo la sua versione originale uscita con successo in Francia appena un anno fa. Proviamo allora ad entrare dentro al film per cercare, se non le giustificazione, almeno le ragioni di tale decisione. La vicenda si apre con l’immagine di una famiglia felice e benestante: la borghesia del benessere con il lavoro assicurato ed una casa più che bella. Segni di stabilità ribaditi anche dalla presenza di un figlio senza particolari problematiche. Un giorno in quell’isola felice succede l’impensabile. La polizia irrompe nella casa ed arresta la moglie con l’accusa di omicidio. E’ l’inizio dell’Inferno. Una serie di lungaggini burocratiche, e la convinzione sull’impossibilità di dimostrarne l’innocenza lo convinceranno a fare a modo suo. Per liberarla sarà disposto a tutto. Ecco allora una delle possibili risposte: ancora una volta (Nella valle di Elah ed in parte anche Crash) la scelta di Haggis parte da una posizione iniziale consolidata e conservativa fatta di famiglia, decoro sociale e fiducia nelle istituzioni per sconvolgerla con un evento, in questo caso l’arresto della moglie, in precedenza la morte di un figlio e prima ancora un abuso di potere, che innesca un processo di dissoluzione di quelle certezze. Qui più che altrove il personaggio principale è costretto a rinnegare se stesso, ad uscire dalle regole. E’ un uomo improvvisamente isolato che può contare solamente su sé stesso e sulla sua capacità di sopravvivere. In precedenza quest’abilità era il frutto di un esperienza maturata sul campo – l’Hank Deerfield di Tommy Lee Jones si confronta con un ambiente di cui lui stesso ha fatto parte — in questo caso John Brennan, professore universitario, è la conseguenza di una mente abituata a ragionare. Una ribellione quindi, e come sempre in Haggis un sentimento di totale smarrimento, acuito anche dalla scelta della sceneggiatura di non rispondere ai quesiti che dovrebbero scagionare la moglie. Una condizione dell’uomo moderno che il regista come sempre riesce a far passare, a rendere universale pur raccontando delle storie che nella proposizione di temi come quello della giustizia personale e, di situazioni come quella dell’uomo qualunque costretto a confrontarsi con eventi eccezionali, sono profondamente americane. Quindi per ricapitolare abbiamo la messa in discussione dello status quo da parte di un personaggio che inizialmente vi appartiene, un ribaltamento delle convinzioni di partenza frutto di una ribellione personale ed infine un senso di generale sconforto che diventa condizione esistenziale. Si potrebbe quindi rispondere alla domanda d’apertura affermando che Haggis si è appassionato al soggetto perché vi ha riconosciuto i segni della suo cinema, una visione del mondo che condivide. Eppure questo non riesce a soddisfarci perché messa così il film sembrerebbe più o meno una ripetizione dei lavori precedenti e finirebbe per avvalorare l’ipotesi di un ispirazione arrivata al capolinea. Allora bisogna continuare e pur con le limitazioni di un epilogo che non deve essere svelato possiamo dire che il cambiamento c’è e pure grande. Perché se prima di questo film i personaggi di Haggis si ribellavano ma in qualche modo operavano all’interno di una legalità non del tutto scomparsa, e comunque rientravano nei ranghi, nel caso del professor Brennan e della sua vicenda, questo non è più possibile. La bandiera rovesciata che concludeva il film precedente ha perso qualsiasi significato. Il processo è diventato irreversibile. L’essere umano è solo di fronte ai propri bisogni. La civiltà che ha costruito lo spinge a ritornare ad uno stato primordiale, a quel caos generalizzato che azzerando le differenze permette una speranza di riuscita. Ed è forse qui, in questa spostamento di prospettiva, in questo passaggio dall’altra parte della barricata che “The next three days” trova una giustificazione ed un urgenza. Il resto è un film di mestiere che riesce a costruire il suo coinvolgimento nella progressione di avvenimenti vissuti sulla pelle dei suoi personaggi, con la macchina da presa di Haggis come al solito coinvolta in prima persona in quello che succede (la macchina digitale in questo aiuta) e grazie ad un Russel Crowe immenso, capace di prendersi il film e caricarselo su un corpo pericolosamente al limite degli standard hollywoodiani. E’ lui, con l’aria di chi non ha tempo di occuparsi dell’estetica, a regalare alla storia la concretezza necessaria a compensare i vuoti d’aria provocati dagli inserti dedicati all’infrazione delle regole. Un film da vedere quindi, scordandosi anche che si tratta di un remake. Russel Crowe è comunque irreplicabile.
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