Regia di Paul Haggis vedi scheda film
Hollywood, mai come in questi ultimi anni a corto di idee e di stimoli innovati, sempre più spesso tenta semplicemente di “rincorrersi” o di girare intorno a se stesso con le nuove produzioni messe in cantiere fra prequel, sequel, adattamenti e “riproposizioni”. E quando non riesce a colmare i vuoti dell’ispirazione utilizzando esclusivamente il proprio territorio, invece di esplorare nuove strade, sceglie “prudentemente” di fare remake autoctoni di qualche importante successo che viene dall’esterno, ma che preferisce “rigirare” secondo la propria “filosofia più commerciale” che quasi mai aderisce completamente al progetto a cui si ispira (e qualche volta persino lo snatura), tanto che i risultati sono più o meno sempre inferiori e un tantino deludenti, spesso pleonastici come le “imitazioni” e le “copie conformi” che hanno solo la parvenza dell’originale ma poi a ben guardare, sono purtroppo sempre “un’altra cosa”.
Peccato che si sprechino tante energie e soldi così inutilmente, perché si potrebbero invece promuovere un po’ meglio quelle pellicole prese a riferimento che hanno tanto colpito i magnati della produzione per consentirne la visione a un pubblico più vasto (si renderebbe un migliore servigio al cinema e allo spettatore e si potrebbero concentrare così idee e capitali per favorire “innovazione” non solo tecnica ma anche tematica e di contenuti, tanto necessaria e importante per mantenere alto il vessillo della settima arte un po’ in declino proprio da “quelle parti”).
Indipendentemente dal giudizio che ciascuno può dare del prodotto finito (si potrà già capire dall’introduzione che io sono poco conciliante al riguardo), l’ultima fatica di Haggis rientra proprio in questa nutritissima casistica “rifacimentaria” (e ancora una volta nel confronto, la bilancia non volge certo a suo favore, almeno per quel che ci ho trovato dentro io, che sono però forse troppo di “parte” viste le premesse, e se qualcuno non trovasse pertinenti le mie riserve, che non prenda allora troppo sul serio il mio pensiero, è legittimato a farlo e a considerare di conseguenza di gran lunga migliore e più adeguato il suo giudizio, io non glie ne vorrò di certo, visto che come opera autonoma e non semplicemente “un derivato”, anche questo film forse alla fine potrebbe meritare qualche punto in più di quelli che invece glie ne assegno io).
The Next Three Days dunque, perché al di là di tutti i panegirici che ho fatto in apertura, è poi di questo che dovrò parlare. Inizierò allora a indicare subito che a me sembra si sia trattato di un’occasione persa già in partenza, o per dirla ancora meglio, di un’operazione fatta un po’ fiaccamente per tentare di far sopravvivere a se stesso un certo cinema di genere che una volta gli americani sapevano fare così bene, senza spendere però troppe energie, e contando già sull’ipotesi di un risultato “certo”, quello dell’incasso garantito. Il “genere” (noir, melò, commedia o film d’azione e d’avventura che dir si voglia) prevede già per sua natura il rispetto di molte convenzioni, ma non per questo deve per forza rinunciare ad essere inventivo: guai se si trasforma invece in un cinema che non sa rigenerarsi, ma si riflette come in uno specchio e in qualche modo si autocelebra, sempre uguale nel ripetere regole ormai codificate, e di conseguenza assolutamente prevedibile (“immutabile” quindi non solo nello schema ma anche nel percorso strutturale), che poggia proprio sul presupposto tutt’altro che campato in aria, che lo spettatore sia un abitudinario e che richieda soprattutto il rispetto pedissequo delle aspettative e premi di conseguenza ciò che alla fine risulta più somigliante e “familiare” a ciò che si conosce già, o in ogni caso, più vicino alla ripetitività narrativa a cui ci si è ormai abituati e che costituisce di conseguenza una rassicurante “acquisita certezza”: strutture sempre similari con poche variazioni, schematici sviluppi del racconto e dei colpi di scena, snodi ben oliati e già sperimentati con successo, tutte modalità che si ritrovano persino nei serial televisivi - anche quelli più osannati e di più alta fruizione - che vengono programmati sulle reti televisive nelle varie “stagioni” che li contraddistinguono.
Allora una pellicola come questa, può sembrare implausibile quanto si vuole, il suo protagonista si può incagliare nelle più assurde delle situazioni, ma anche se continuasse all’infinito nel solito tran tran fatto di una suspence spesso “pilotata” e un po’ stantia, il divertimento rimarrà comunque garantito proprio dal fatto che lo spettatore nel buio della sala mentre sobbalza ad ogni scarto della narrazione, sa già che “i nostri” arriveranno sempre in tempo, nel senso che l’eroe di turno, riuscirà comunque anche se all’ultimo momento, a superare ogni ostacolo che gli si è contrapposto, per quanto insormontabile potesse sembrare in apparenza, non tanto perché c’è una logica ferrea nel racconto (spesso è semmai proprio il contrario), quanto perché il valoroso paladino della storia non può fallire nella sua missione, ed è proprio questo il meccanismo che più ci tranquillizza, quello che incanta il pubblico fruitore che vede così pienamente soddisfatto il suo primario bisogno di conciliante evasione in “positivo”, anche a costo di prendere per buone soluzioni che sfiorano sovente l’impossibile. Mi direte allora: ma che male c’è in tutto questo, dove sta il problema? in fondo al cinema si può chiedere anche questo: il divertimento fine a se stesso (e non c’è niente di sbagliato nel pretendere dunque che il cinema faccia il cinema, se lo fa al suo meglio, anche con tutte le supposte imprevedibilità magari esposte persino un po’ spudoratamente come nel caso che stiamo esaminando). E’ vero, ma io non sono convinto che ogni cosa “funzioni alla perfezione” - non sempre per lo meno - e mi dovete allora concedere davvero qualche riserva, perché nel film di Haggis tutto questo sembra essere perfettamente rispettato (ci mancherebbe altro) anche se alla fine però, a parte una movimentata, concitata conclusione, si può dire che non ci sia poi stata davvero una vera azione, poiché tutto si è mosso abbastanza artificiosamente, quasi come fosse spinto da una calamita, per soddisfare l’esigenza “meccanica” dell’evoluzione e dare qualche “soluzione” (magari anche dubbiosa) al racconto, che poi come si è visto, altro non è che il remake di una pellicola francese come Pour elle di Fred Cavayè che aveva però ben più appuntite frecce al suo arco, perché pur inscenando più o meno la stessa vicenda, si presentava come un’opera formalmente ineccepibile sorretta da un altrettanto impeccabile stile visivo di fortissimo impatto fatto di atmosfere notturne piene di ombre e di chiaroscuri, e ottimamente supportata per altro da un cast di attori tanto perfetto quanto in sintonia, e tale da far passare in secondo piano anche alcuni marginali cedimenti di una sceneggiatura complessivamente ben orchestrata e servita egregiamente da un montaggio e una tecnica di ripresa molto avvolgente anche nella parte più ostica, quella della dettagliata “esposizione” del piano finale studiato dal protagonista per tentare di far evadere la moglie. Tale rispetto “delle analogie”, ahimè non fa però che rendere più evidente la differente dinamicità delle due strutture. Gli elementi narrativi sono gli stessi, come si è visto, ma come mai questa volta sembra invece tutto meno realisticamente accettabile dell’originale? A mio avviso la risposta sta proprio in quello che ho scritto in apertura: Pour elle era un progetto molto articolato che al di là della storia puntava sulle atmosfere e sulla forma, The Next Three Days è al contrario una scolorita copia magari più adrenalinica, ma molto meno empatica, interessata soprattutto a riprodurre la superficie, anziché i dubbiosi contenuti che rimangono sempre in sottotraccia (e quindi più ”convenzionale” e meno emozionante anche nell’azione). Nel film di Haggis infatti ogni cosa tende a sembrare quasi un’ossessione che tutto consuma e vince ogni paura, della legge, della morte e persino della possibile esistenza di una colpa, ma che non ha purtroppo sufficiente benzina nel motore per aspirare a diventare qualcosa di diverso, perché quando a certo punto il regista tenta di scostarsi dall’originale, anziché trovare una sua rinnovata vitalità, finisce per creare una evidente, incomprensibile frattura, che contribuisce soltanto a rendere più caotico e accidentato il percorso (ed anche più “spettacolare” devo riconoscerlo), non certo a rendere migliore il risultato.
Per Haggis un vero passo indietro quindi rispetto alle sue due precedenti pellicole, perché del suo talento qui sembra essere rimasta attiva solo la bravura tecnica e la mobilità dei movimenti della macchina da presa, mentre latita invece l’ispirazione, e con questa, l’effettiva credibilità delle cose e il coinvolgimento.
Il film procede dunque diretto per la sua strada, senza fermarsi mai a riflettere su se stesso, ed è un vero peccato poichè, considerato proprio il nome del regista che c’era sopra il titolo (e una certa, indiscussa autorialità del suo passato a cui accennavo sopra), ci si sarebbe potuti aspettare a buon diritto qualcosina in più di ciò che invece poi ci viene propinato, per lo meno quel tanto di consapevolezza anche critica che distingue un autore che si rispetti dal mero confezionatore di un cinema più prettamente commerciale e di intrattenimento (che in chi è davvero grande, dovrebbe rimanere tangibile – magari nelle pieghe del discorso - persino nelle imprese più spericolate e meno in sintonia con la propria poetica) . Ma purtroppo questa volta nessun’altra concezione alternativa di visione (o sottotesto) è presente oltre a quanto piattamente riprodotto che rimane limitato esclusivamente alla rappresentazione dei fatti “nudi” e “crudi “ con tutte le pedanti inverosimiglianze che si porta dietro.
Siamo insomma nel pieno dominio di un conformismo formale della messa in scena che aspirerebbe alla classicità, molto lontano quindi da ogni stilizzazione più moderna, personale e innovativa, e allora (o forse proprio per questo) ciò che resta è poco più di una fantasiosa utopia, o peggio, la rappresentazione di un sogno impossibile che può concretizzarsi solo “nel” cinema (di genere ovviamente) e che soltanto il cinema può rendere accettabile: il sogno insomma vecchio come la stessa Hollywood (che qui si riconferma immarcescibile) che è poi quello di ipotizzare che l’ordine delle cose possa essere alla fine ristabilito sempre e comunque (ad ogni costo si potrebbe dire) anche mischiando un po’ le carte in tavola, utilizzando una narrazione finalizzata a cercare di rendere coerente l’impossibile e che non ambisce a nient’altro che a “rassicurare”.
Le tappe del racconto si presentano così come semplici passaggi obbligati che nel corso della visione possiamo magari immaginare di credere possibili (ma che tali non lo sono proprio), a cominciare dalla “santificazione” dell’eroe, artefice di un piano che avrebbe bisogno della concomitanza totale di ogni suo piccolo dettaglio per diventare una ”certezza”, un castello di ipotesi plausibili unicamente dentro la sua testa, e che soltanto un cinema perfettamente “pianificato” come questo dove due più due non può che fare quattro e non potrà mai dare alcun altro risultato come invece purtroppo accade nella vita reale, può pretendere di offrire ai nostri occhi come realistica certezza. Ed è così che la trama diventa un tracciato scontato soffocato dalla sua stessa inevitabilità, che rende forse il “prodotto” un’opera a suo modo molto conciliante, quasi “positivista” alla fine,, ma per me tutt’altro che soddisfacente.
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