Regia di Sydney Pollack vedi scheda film
"In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong…" sembra poterle sentire queste parole. Roteare per l'aria satura di una stanzetta di ospedale, dove Karen C. Blixen nata Dinesen giace stanca e dolorante, guardando fuori dalla finestra il paesaggio esangue della grigia distesa danese. Sognando "la luna nuova ... distesa sul suo dorso" ed il "fremito dell'aria sulla pianura" in una calda serata a Nairobi.
"La mia Africa": la sua appunto. Sua, di una ventottenne danese, che nei primi decenni del '900 lascia un' Europa vecchia ed irrequieta e si lancia in una avventura emotiva e geografica di indubbia modernità. Anni dopo, in parte scrivendola in parte dettandola (già minata da una salute malferma) ammanterò tutto di nostalgia e pubblicherà il romanzo della sua Africa, quella del rimpianto, per quella stagione irripetibile che è la giovinezza. Forse fu per cavalleria - non proprio nelle sue corde - o forse per modestia - oggettivamente impensabile - che Hemingway si shernì all'annuncio della assegnazione del Nobel, nel 1954: asserendo che l'avrebbe meritato anche quella meravigliosa signora venuta dal freddo. Aveva torto. Lo spessore letterario a tutto lì, da leggere. Però, da donna, posso dire che sarebbe stato bello: la vittoria del coraggio, della sfida gentile alle convenzioni ed ai ruoli sociali, in nome della passione. Per la vita.
Cosa resta di questo testo oggi? Poco, dello sconfinato, malandato, contraddittorio "suo" continente nero: depauperato da quello stesso colonialismo dipinto con troppa benevolenza e romanticismo; avvilito dal disprezzo della natura (tra commercio di avorio, safari assassini ....), ammalato non tanto e non solo di ebola (che il "primo mondo" reputa emergenza perchè pericolo non circoscritto, o non ancora vaccinabile) ma più di aids, dissenteria, morbillo, fame; scosso dall'estremismo, che si nutre di ignoranza e mancate speranze. Molto invece del racconto dei sentimenti umani: che non hanno continente, né epoca, nè colore della pella o lingua. Ma forse, in alcune delle loro sfumature, hanno genere.
Tutto questo è correttamente presente nella pellicola di Pollack, che in qualche modo fa propri i limiti della scrittura, e li amplifica. Diffondendo il romanzo trasversalmente attraverso le fila di un pubblico che altrimenti sarebbe rimasto estraneo; cercando di evitare una inesorabile condanna all'invecchiamento precoce puntando tutto sull' esotismo tecnico (bene) e sul sentimentalismo facile (male).
Ne viene fuori un film ortodosso e spettacolare, ma freddo e un po' noioso perché discontinuo. A cui è umanamente difficile perdonare i sette oscar ricevuti: vero è che non ricordo quali fossero gli altri nominati, ma sette sono troppi.
L'unico pienamente meritato è quello alla fotografia.
Tutto sommato può starci anche quello al sonoro e alla colonna sonora. Personalmente non amo John Barry, se i temi sono godibili e la scelta della musica classica condivisibile, meno concordo con i "tempi": sottolineature eccessive (le scene in aereo per esempio) a mo' di "aria" con un "lirismo tour-court" molle a cui io avrei preferito il silenzio. Ma è anche questione di gusti.
La scenografia mi pare buona ma non eccelsa.
Difficile invece giustificare un premio alla sceneggiatura non originale, o alla regia. Pollack dirige un lavoro pulito ma del tutto impersonale, sorretto da mezzi economici non indifferenti (si vedono tutti!) e puntando sulle interpretazioni. Ma se Meryl Streep è ottima, e mantiene un invidiabile equilibrio fra forza e tenerezza evitando tutti i registri troppo "contriti", Robert Redford (per cui nutro una avversione di vecchia data) non riesce a tenere il passo. Ha un piglio yankee fuori luogo (per fortuna, ho visto il film doppiato in italiano!) sbaglia i toni, non si "amalgama": la noia si annida nella relazione fra i due, dove non si percepisce sentimento, desiderio, erotismo, condivisione, confronto. Non a caso, è qui che la sceneggiatura scricchiola: il testo originale è zeppo di "non detti", lo si sarebbe dovuto ricreare ex-novo (non un obbligo, ma una scelta evidente. Registica, produttiva: altrimenti perchè Redford?). Ma il risultato è modesto.
L'immaginario collettivo dipinge "La mia Africa" come una grande storia d'amore. L'immaginario appunto, non la realtà irreale dello schermo. Dove, al contrario, emergono (ma a me pare quasi per caso, o comunque senza convinzione, quasi a nasconderle) tutte le contraddizioni dei rapporti umani, fatti, assai più spesso di quanto non si creda, di dis-amore. Karen si sposa per convenienza, ma sa trovare con concretezza tutta femminile le ragioni di una parvenza di sentimento sincero anche in una unione solo burocratica. La sua intelligenza, che la spinge ad accontentarsi con serenità del meglio a lei concesso, è però mortificata dal marito (Klaus Maria Brandauer buon comprimario): egoista ed incosciente. La maturità emotiva e fisica della protagonista coincide temporalmente con la piena coscienza di sé e del proprio ruolo del mondo che passa attraverso l'umiliazione più grande per una donna (soprattutto in quegli anni): l'impossibilità della procreazione. Che è negazione di sé (piena coscienza di sé attraverso la negazione). Il bisogno pressante di sentirsi utile e generante trova sfogo parziale nella scuola, nella fattoria, nella scrittura. Ma è pur sempre uno sfogo arido, addirittura sterile: alle sue richieste di aiuto, di comprensione, non solo il marito è sordo, ma pure Denys. Anch'egli lontano, anch'egli egoista anche se furbescamente idealista.
Karen si erge solitaria sulla narrazione, esattamente come Meryl Streep sulla fotografia di un Africa mitica e primordiale.
Nulla le appartiene, se non se stessa. Ma è molto.
I suoi dubbi, le sue paure, sono la voce della sua forza: "Io conosco il canto dell'Africa, della giraffa e della luna nuova africana distesa sul suo dorso, degli aratri nei campi e delle facce sudate delle raccoglitrici di caffè. Ma l'Africa conosce il mio canto? L'aria sulla pianura fremerà a un colore che io ho avuto su di me? E i bambini inventeranno un gioco nel quale ci sia il mio nome? O la luna piena farà un'ombra, sulla ghiaia del viale, che mi assomigli? E le aquile sulle colline Ngong guarderanno se ci sono?"
Se di amore si può parlare, il testo lo chiariva appieno, ma a Pollack non pare interessare poi tanto: un attaccamento viscerale, tanto immotivato ed immediato, di Karen per L'Africa. Ai suoi odori, ai suoi paesaggi, ai suoi selvaggi della notte, agli animali, agli abitanti . Cerca di spiegarsela questa passione, di capirla: ma la passione è, di per sé. inspiegabile: è la diversità a intrigare, ad attirare, a coinvolgere: "Arrivati per la prima volta a Roma e a Firenze, gli antichi pittori, filosofi e poeti tedeschi e scandinavi si inginocchiarono per adorare il sud".
Come un sogno il continente scomparirà dagli occhi della protagonista: come l'amore, che aveva perduto: ma a guardarlo bene, non aveva mai avuto.
"Ah quando sei lontano e nessuno
più nomina il tuo nome -
quando ovunque mi rechi sento
coupo e gelido un vuoto -
cominci oa credere che tu sia solo un sogno
nato dalle brame della mia mente,
e a questo sogno ho dato vita e nome
e in ultimo il tuo aspetto -
ma quando poi ti vedo e posso
sentire ancora le tue forti parole,
e posarti ancora il capo sulla spalla -
ascoltare ancora il suono della tua voce -
allora so che il resto è solo notte,
malvagi sogni che presto scorderò,
so che tu mi porti nella luce
e che in te dimorano la vita e il giorno
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