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Non lasciarmi

Regia di Mark Romanek vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Non lasciarmi

di (spopola) 1726792
8 stelle

Una sconvolgente metafora sociologica solo un tantino avveniristica. Il film ci fa infatti “toccare con mano” come potrebbe andare il mondo in un futuro abbastanza prossimo. Lo fa con una esposizione di lucida e dettagliata chiarezza che riesce a impressionarci (e disturbarci) proprio, per la logica stringente della rappresentazione delle cose.

Never let me go…

Un film di fantascienza? Certo, potremmo liquidarlo anche così, ma non sarebbe poi a mio avviso molto corretto limitarsi solo a questo.

La storia è futuribile, ma semmai esaspera soltanto, portandolo alle estreme conseguenze, un tema che di fatto è già fra noi, anche se in maniera più strisciante e “ambigua”, visto che non ci sono ancora cloni destinati all’uso, ma il commercio (illegale) degli organi esiste, ed è brutale, ugualmente terribile comunque (e forse anche di più), poiché per un profitto estremo e senza scrupoli, finisce per coinvolgere inconsapevoli persone a cui si “ruba” scientemente una parte importane del corpo e della vita, come hanno già documentato altre interessanti opere cinematografiche (ad esempio, sempre per rimanere all’Inghilterra, Piccoli affari sporchi di Stephen Frears), quando non  glie la si porta via addirittura per intero quella vita se l’espianto riguarda organi essenziali come il cuore, e a far le spese  di questa criminale barbarie sono emarginati senza storia o ignari bambini “trafugati” soprattutto alla povertà del terzo mondo che spariscono nel nulla (e non sempre certamente per un’adozione illecita questo è sicuro, pur se mancano le prove “inconfutabili”  di ciò che davvero è capitato loro).

Di solito però si tratta di “sotterranee” imprese delittuose, di una delinquenza efferata che vorremmo considerare marginale (anche se magari non riflettiamo mai seriamente che la committenza è comunque ben radicata nella società cosiddetta civile, perché ad usufruirne di quegli organi sottratti con la forza o il sotterfugio, sono poi le classi più agiate e danarose che con i loro ingenti capitali - spesso fraudolenti - possono permettersi il lusso di questo esecrabilissimo “privilegio estremo”, inaccettabile e disumano che dovrebbe ripugnare a tutti, ma che evidentemente è invece un altro specchio del degrado totale delle coscienze e dell’etica, che ormai inquina la nostra società e che nel prosieguo non potrà che degenerare ancora in peggio).

Uno dei meriti di questa importante (e per me straordinaria) pellicola è allora proprio quello di  essersi “volutamente” provata a fare un passo avanti, a forzare un po’ la mano, a spingersi oltre il “tabù” e a farci considerare possibile (e già effettiva) l’istituzionalizzazione generalizzata di una “procedura” così aberrante come quella che ci viene rappresentata, che parte dalla creazione manipolata di una genìa vivente di “pezzi di ricambio” organizzati “ad hoc”, da utilizzare alla bisogna nel rispetto totale delle leggi, e definita con precisi  protocolli operativi non solo procedurali, ma anche comportamentali ed educativi, dallo stato e dalla medicina. Certamente una  sconvolgente metafora sociologica solo un tantino avveniristica allora (ma sappiamo benissimo che quello che ci viene rappresentato  - atavico sogno dell’umanità alla ricerca della propria impossibile “immortalità” - è in effetti un obiettivo che la genetica insegue con pervicacia, e che ci sono in ballo studi molto avanzati e arditi che impegnano ingenti capitali: la scienza è ansiosa di conseguire il successo in questo campo, fiutando business e gloria, e che, per quanto tutti, almeno  “a parole”, sembrino contrari e riluttanti ad avallare e spingere la sperimentazione verso il genere umano, prima o poi qualcosa succederà anche in quella direzione e quando ciò avverrà, tutti saranno felici di buttare alle ortiche le proprie remore per le nuove prospettive che aprirebbero la strada  a una più  prolungata sopravvivenza). Qualcosa di così terribile e “reale” insomma che ci spaventa e ci attrae allo stesso tempo lasciandoci disorientati  e che il film rende “veritiero”, facendoci  toccare con mano come potrebbe andare il mondo se queste ipotesi diventassero reali, con una esposizione  di lucida e dettagliata chiarezza, e una impassibilità analitica che riesce a impressionarci (e disturbarci) ancor di più, per la logica stringente della rappresentazione delle cose imposta dal regista.

Non lasciarmi infatti,  non ha bisogno né di guerre, né di terrorismo, né tantomeno di ricorrere alla suspence classica del genere “fantascientifico” che si nutre di  pacchi bomba, di attentati o di complotti, di ghiacciai che si sfaldano, di  invasioni spaziali o di altre stravaganti invenzioni e diavolerie per rendere inquieto lo spettatore  ed instillare quella tensione profonda e un po’ angosciosa che qui  è spontanea e genuina e ci avvolge quasi subito, senza concederci mai un attimo di tregua, proprio perché raggiunta sollecitando l’emozione e il raziocinio. L’impatto è infatti a mio avvisto terribile e spiazzante, di quelli che lasciano il pubblico scioccato non da quel che vede, ma da quel che prova dentro, dalla “normalità” inquietante dell’esposizione dei fatti, conseguenza espansa di un processo di “emancipazione” della scienza in divenire e che in questo “domani” predatato agli ultimi decenni del secolo scorso, pur trattandosi di un vero e proprio abominio, risulta “accettato e condiviso”, non certo una “trama” illecita clandestinamente organizzata, né  una macchinazione politica o un abuso di potere, ma al contrario, un qualcosa  che viene ormai considerato una irrinunciabile conquista del progresso che appartiene al quotidiano vivere della gente, un evento assolutamente regolamentato e lecito che non riesce nemmeno a suscitare qualche soprassalto morale o di compassionevole rincrescimento, un “fatto” della vita di ogni giorno insomma come lo può essere quello di fare colazione al mattino o dormire la notte: nascere, crescere e morire giovanissimi (essere stati addirittura creati ed “educati” appositamente per questo scopo) dopo aver donato un paio di organi, un procedimento barbarico organizzato e schematizzato da uno stato e una società che hanno perso ogni  dimensione morale delle cose e che si sono definitivamente assoggettati a una logica del mercato elevata alla massima potenza, definita  da una condizione ritenuta tanto naturale da farla sembrare a tutti, anche a chi ne è oggetto e vittima, un qualcosa  di cui andare fieri e che riempie di orgoglio.

Quindi allora se  proprio di fantascienza si volesse  parlare, non è certo a quella chiassosa e frastornante che ora va per la maggiore che dovremmo riferirci, ma semmai a  un filone  più prettamente  sociologico e  impegnato nel civile che si riallaccia a quello fortemente in auge fra i sessanta e i settanta del secolo scorso che ci ha dato opere come Logan’s run (La fuga di Logan), THX 1138 (L’uomo che fuggì dal futuro) o Soylent Green (I sopravvissuti). Questa intensa pellicola di Mark Romanek infatti, al pari di quelle, è un film che elabora l’inquietudine e le paure di un’epoca (in questo caso aggiornate alla contemporaneità dei nostri giorni nelle tematiche della vita),  ricorrendo, ma in modo assolutamente realistico, a  uno scenario non ancora del tutto realizzato, ma utilizzando delle coordinate spazio-temporali talmente veritiere da raffigurare un panorama di credibile e  totale desolazione morale, schiavitù, condizionamento e coercizione, e via discorrendo che parla proprio di una possibile “morte delle leggi che regolano i meccanismi della vita”  e che con le sue fosche premonizioni, potrebbe magari servire da monito esorcizzante (io non ci conterei troppo però sul risultato pratico), visto che per prolungare la propria di esistenza si è scelto di affossare la morale e il sentimento, decretando il decesso legale di altre vite, sia pure “diverse” ma comunque ugualmente “umane” (lo straordinario finale con Carey Mulligan che aspetta la sua ora davanti a un orizzonte bellissimo e denso di colori “vitali”, ricorda molto da vicino la scena di Soylent Green in cui Edward G. Robinson si abbandona a un trapasso ugualmente “imposto” e pianificato, rivolgendo lo sguardo al passato e scegliendo per questo, prima di una fine non più procrastinabile, di rinfrancare il suo spirito per l’ultima volta, con le  immagini di una bellezza ormai perduta e dimenticata dai più, quella  dell’acqua, del sole, di un fiore, della magnificenza insomma di una natura opulenta e rigogliosa tradita e rinnegata proprio dall’uomo).

 

Niente arche di Noè da costruire, vulcani che eruttano o meteoriti impazzite che devastano la terra,  strade che si squarciano o tempeste magnetiche improvvise a sconvolgere la vita dunque come ho già detto, ma una realtà che ha tutte le sembianze (e la normalità) del mondo in cui viviamo già – e per questo appare ben più tragica e allarmante - fatta di scuole e di ospedali, persino di ipotesi concrete che ci affascinano da un lato, ma dall’altro ci turbano non poco, che narrano in questo caso di ragazzi e ragazze “creati” e programmati per morire, non cyborg dalle fattezze umane, ben inteso, ma al contrario adolescenti in carne ed ossa che hanno anche un’anima, la cui esistenza è comunque inesorabilmente destinata a interrompersi (ed estinguersi) poco dopo aver raggiunto la maggiore età. Romanek  parla infatti di cloni (o di presunti tali), ma lo fa con uno stile rigoroso e totalmente “umanizzato”e ci fornisce una visione quasi entomologica, distaccata e neutra  compassata e anglosassone anche nella forma, dove proprio la “differenza” che esiste fra la preoccupante futuribilità  della sostanza e la classicità raffinata della messa in scena scelta che qualcuno ha  persino definito con un certo azzardo (credo su Ciak, se non ricordo male) una stilizzazione delicata quasi  di matrice“nipponica” con qualche sotterranea eco Mizoguchiana, è il vero asso nella manica che rende l’esito assolutamente degno di nota. Al di là comunque di quel paragone forse improponibile, è proprio il prezioso contributo offerto da una sobria regia  controllata e acuta ad essere, con gli interpreti, il vero punto di forza di un film che si discosta totalmente dalla spettacolarizzazione tutta hollywoodiana di opere molto più epidermiche realizzate sullo stesso tema come The Island o Il mondo dei replicanti. Semmai potremmo dire che modernizza e rende contemporaneo e umanizzato (al fine di farci riflettere criticamente sulla effettiva portata anche culturale del problema) quello che uno scrittore/regista come Crichton anch’esso impegnato nella denuncia della violenza del mondo in cui viviamo, aveva già  larvatamente supposto - come possibile “evoluzione” di una già evidente deriva in corso - a partire proprio dal suo ormai lontano esordio cinematografico con  Coma profondo.

Fantascienza eticamente necessaria? Sicuramente anche questo (e scusate se insisto) ma io preferisco considerarla soprattutto – e prioritariamente - una pellicola incentrata sui sentimenti (e in special modo sull’amore, quello incondizionato, che si definisce “eterno”) appassionata, suggestiva, romantica ed intrigante.

Alla sua uscita (più o meno sei anni fa)  il romanzo da cui è tratto il film,  opera dello scrittore giapponese Kazuo Ishiguro che vive però da molti anni in Inghilterra (e  ben più conosciuto autore del fortunato Quel che resta del giorno), venne accolto con molto scetticismo e qualche accusa di  opportunistico “sensazionalismo catastrofico”, critiche a mio avviso un tantino ingiuste e davvero poco ponderate, perché quei fatti esposti, quelle “suggestioni” apocalittiche,  rispondevano chiaramente a una precisa esigenza “emotiva” dell’autore (ci si dimenticava forse che in Giappone è stata Nakasaki con la sua triste storia la città che gli ha dato i natali e che la Gran Bretagna dove ha trovato rifugio e vive, è proprio la terra della pecora Dolly, il primo animale clonato della storia). Quindi è semmai  un racconto “ardito” ma pertinente e tutt’altro che avulso da una realtà imminente,  che illustra una “condizione” possibile e  un disagio antico,  che non si limita a stigmatizzare semplicemente e solo i rischi morali della clonazione (non lo faceva  il libro come del resto non lo fa il film), ma  ambisce semmai a diventare, proprio partendo da questa prospettiva estrema,  una lucida riflessione sui poteri della scienza, e soprattutto sul senso dell’amicizia, dell’amore e dell’influenza dell’arte nella vita, tutti temi centrali trattati con delicata partecipazione.

Il rispetto dei dialoghi  direttamente acquisiti  dal romanzo (ottimo il lavoro fatto da Alex Garland nel trasporre in sceneggiatura la poetica scrittura  dell’autore) e l’interpretazione convincente di Carey Mulligan, Andrew Garfield e Keira Kinghtley , rendono cosi  il film un’opera cinematografica complessa, insolita ed emozionale, di forte e sicuro impatto sul pubblico.

Romanek (non una folta carriera  registica alle sue spalle:  solo One Hour Photo per il grande schermo, e prima, soprattutto i video Bedtime Stories di Madonna e Scream di Michael Jackson) è stato in questa circostanza semplicemente perfetto nel mostrarci la fatiscente esecrabilità di una società  “in declino” che vuole sopravvivere a sé stessa, e che  ha bisogno per questo di  poter disporre di una nutrita schiera di  esseri “umani” appositamente creati  e addestrati fin dalla primissima infanzia ad accettare di morire presto, e a rendere, attraverso la straordinaria forza evocativa delle immagini, l’aria tormentata e oscura che si nasconde dietro quelle vite, prendendo a prestito per portarle in assoluto primo piano quelle apparentemente normali (ma alla fine piene anche di conflitti interiori) di tre amici.

Lo stile adoperato dal regista è rischioso ed affascinante, assolutamente controcorrente nel rifiutare ogni possibile rapporto con le convenzionalità narrative ormai consolidate: basta osservare come viene risolta  quella che potremo considerare  come  la vera  “scena madre” con la rivelazione a sorpresa di come stanno effettivamente le cose (e lo sono sempre state) che stravolge molte delle ipotesi e delle convinzioni che avevamo  maturato prima. Mi riferisco ovviamente all’incontro fra Kathy e Tommy con la signora  che dovrebbe (potrebbe) accordare loro una dilazione (vero e proprio momento “cruciale del racconto”) che si risolve in un dialogo spiccio e diretto assolutamente privo di enfasi retorica  (ed ha  una sola battuta di forte impatto, quasi straziante, che chi ha visto il film sa ben considerare per ciò che di profondamente drammatico contiene dentro:  Non avevamo fatto La Galleria perchè volevamo sapere  se ne possedevate una, di anima, questo lo sapevamo già)  che lascia il campo aperto a una rassegnazione totale priva persino di una (im)possibile ribellione, che passa dall’accettazione totale anche se accorata della propria condizione subalterna  e del ruolo assegnato, che viene poi perfettamente  sintetizzata con altrettanto straordinario impatto empatico, dalla successiva conclusione così  semplice e tragica allo stesso tempo, uno di quei momenti topici  che lasciano solchi profondi di smarrimento  nello spettatore che ne percepisce tutta la drammatica portata : Non ci sono dilazioni. Non ci sono mai state.

Le “esequie” prive di lacrime del prefinale e all’apparenza quasi “ciniche”, ma solo se si osserva in superficie, sono invece di una potenza devastante, quasi destabilizzante autentica e profonda, che qualcuno ha paragonato a una  catastrofe dell’anima, nella quale possiamo identificarci  tutti riconoscendoci sbigottiti e assorti, quasi increduli nel momento dell’addio estremo alla persona amata.

D’altronde se non c’è guerra (e qui come si è visto non ce n’è proprio alcuna traccia), non può esserci nemmeno ribellione. Resta allora  in qualcuno semmai la voglia di “saperne di più”, quella  che induce una diciottenne a cercare il proprio Originale (ciò che è servito da modello per darle la vita) tra le pagine di una rivista pornografica perché pensa che solo da lì possa essere nata una cosa tanto anomala come la propria esistenza. E cos’è allora questo se non  l’abdicazione ad ogni possibile speranza, l’annientamento assoluto della dignità che l’inevitabile mancanza di una risposta determina, facendo comprendere che non esistono vie possibili di fuga e che di conseguenza non resta che il nulla assoluto e con questo, l’accettazione passiva della propria sorte. Ecco che cosa resta allora dell’uomo, della sua intelligenza e della sua umanità, davvero poco o nulla se non un ulteriore e sterile tentativo di onnipotenza che nega criticamente persino il mito del Frankenstein della Shelley e che prefigura il vuoto: Sono passate 2 settimane da quando l’ho perso. Adesso mi è arrivata la  notifica e la mia prima donazione avverrà fra un mese. (…)  Ricordo a me stessa che sono stata fortunata a trascorrere del tempo con lui. Ciò di cui non sono sicura, è se le nostre vite siano poi state così diverse da quelle delle persone che salviamo.

 

La storia si divide in tre tempi, che cadenzano la preparazione e l’ingresso di Kathy, Tommy e Ruth – i tre protagonisti -  nella consapevolezza del loro ineluttabile destino.

Nell’Inghilterra del 1978 (collocazione storica del primo segmento) i tre ragazzi trascorrono la loro infanzia in un mondo “altro”, rigidamente separato dalla vita reale, all’interno del dickensiano collegio inglese di Hallsham, un luogo apparentemente idilliaco dove vengono educati alla compostezza e al senso del dovere, e dove cominceranno ad avvertire i primi segnali  del loro essere “speciali” (come in un romanzo di Kafka, non hanno una precisa identità: non sono infatti orfani, ma non hanno nemmeno i genitori, non hanno ricordi, non sanno da dove vengono e dove andranno, almeno fino a quando una istitutrice di buon cuore, e prontamente licenziata dalla direttrice della struttura per aver disatteso le  regole, non li informa che il loro destino è quello di diventare “donatori”). Sarà proprio in quel periodo che Kathy e Tommy si avvicineranno sentimentalmente per una affinità totale e condivisa, ma solo per il breve tempo di sfiorarsi con un bacio sulla guancia, poiché  sarà Ruth a interrompere il puro idillio sorto fra i due, avocando a sé  le attenzioni di Tommy, e mettendo  così a dura a dura prova la sua amicizia con Kathy.

Ma il tempo passa e tutto sembra  scorre nell’apparente normalità, tra i sogni e le disillusioni che la vita umana riserva ad ognuno di noi.

A prepararli sulla verità, ci penserà poi il trasferimento in un cottage nelle campagne inglesi, nel 1985, il duro momento della crescita e della sofferenza consapevole, il periodo di transizione che precede la breve giovinezza. Ciascuno dei tre, da quel momento procederà per la sua strada,  e si separeranno per reincontrarsi ancora, ormai adulti, solo nel 1994  (l’età della maturità,  della fase di “completamento” di quel programma che ha determinato il loro futuro sin dal  primo giorno di vita, quello in cui dovranno iniziare a  cedere progressivamente  i loro organi a qualche ricco che si è prenotato per l’orribile trapianto).

L’ambientazione della terza parte del film è l’interno di un freddo e vuoto ospedale dove troveranno fine anche le speranze residue prontamente rimosse: è lì che si coagulano tutti i temi forti del film (il senso della vita e della morte, la riflessione sul destino dell’umanità,  il romanticismo di una folle quanto impossibile storia d’amore, intrecciata indissolubilmente a quella di una grande amicizia) perché è proprio quando i tre giovani cloni Keira Knightley, Andrew Garfield e Carey Mulligan (la voce narrante) si ritrovano da adulti e cercano disperatamente di dare un senso alle loro vite di “pezzi di ricambio” immaginando un futuro che non potranno cambiare ma solo subire, che  il film prende definitivamente quota e finisce veramente per graffiare l’anima dello spettatore.

Palpitante e commovente come pochi altri, Non lasciarmi è dunque semplicemente imperdibile, proprio perché possiede quel comune sentire che “incatena” l’umanità a un sentimento fondante come quello dell’amore, che non potrà mai essere liquidato alla maniera di una fugace emozione.

Come giù accennato, il contributo degli interpreti è poi davvero strepitoso: felicissima la scelta dalla Mulligan che gioca magnificamente sugli sguardi la complessa profondità della sua figura, ben coadiuvata dalle altrettanto eccellenti prove di Andrew Garfield , Keira Knightley  e Charlotte Rampling.

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