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Ho giurato di ucciderti

Regia di Juan Antonio Bardem vedi scheda film

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La recensione su Ho giurato di ucciderti

di (spopola) 1726792
6 stelle

E’ la storia di un contadino di nome Juan che ha dovuto scontare ingiustamente dieci lunghi anni di carcere per un delitto che non ha commesso.

Il responsabile dell’ingiustizia, reo di aver taciuto il nome del vero assassino che invece conosceva  benissimo (in effetti era stato suo fratello a commettere l’omicidio) è Luis, che come ogni anno, con la sua squadra di mietitori, nell’afosa estate spagnola, sta battendo le lande della Castiglia per racimolare qualche soldo per lui e il suo drappello di diseredati.

Appena uscito dal carcere, il disoccupato Juan decide di unirsi al gruppo insieme alla sorella Anita, che è la più accanita nell’incitarlo alla vendetta, proprio perché sa che è guidato da Luis, e lo fa col preciso intento di poter trovare l’occasione propizia, una volta accertata davvero la sua diretta responsabilità nell’accaduto, per uccidere quell’uomo a cui attribuisce la responsabilità primaria di tutti i suoi guai giudiziari.

Come spesso accade in situazioni di questo genere però, le cose tenderanno a prendere una piega diversa da quella immaginata e desiderata, per le impreviste complicazioni che sorgeranno durante il percorso. Infatti Anita (e come non metterla in conto una siffatta circostanza? non succede[va] forse sempre così nelle storie di questo tipo?) si innamorerà di Luis e, travolta dal sentimento amoroso, costringerà il fratello a rimangiarsi il sanguinoso giuramento fatto.

Siamo dunque dalle parti, come si può ben dedurre, di quello che una volta veniva definito fotoromanzo popolare a fosche tinte (oggi si potrebbe invece parlare di telenovela)  con uno sfondo di particolare rilevanza sociale, però (anche se il De Santis di Riso amaro, tanto per citare uno di maestri riconosciuti e indiscussi del genere, è purtroppo davvero lontano anni luce, proprio per al differente qualità della mano che dirige).

Nemmeno l’interesse primario del regista comunque, in questa circostanza, era certo quello di raccontare il melodramma passionale che sta alla base dell’azione e che rappresenta il versante per così dire drammatico della vicenda, ma piuttosto quello di documentare invece la vita (o meglio le opere e i giorni, come scrisse a suo tempo Guido Fink) dei miseri braccianti nomadi alle prese con l’estenuante fatica di un lavoro stressante e mal pagato sotto l’implacabile solleone estivo. Credo infatti che gli premesse dimostrare in primo luogo, come proprio da una dura esperienza di lavoro come quella, potesse nascere una nuova, profonda, inaspettata dimensione umanizzata dei rapporti interpersonali, oltre che uno spirito di amicizia e di solidarietà capace di infrangere le barriere degli egoismi e delle incomprensioni, e di annullare persino i rozzi tabù del cosiddetto “onore” e della vendetta.

Il film mette in ogni caso inesorabilmente in evidenza a causa del mancato bilanciamento della materia, la mediocrità di un autore in quegli anni abbastanza sopravvalutato come Bardem, grazie alla (im)meritata fama conquistata sul campo con il delicato, pluripremiato Calle Mayor (opera quella che rimane comunque ancora oggi di tutto rispetto, si badi bene…) ma si vede che nemmeno allora  era sufficiente da sola una riuscita ciambella col buco a risolvere in positivo una carriera, poiché una rondine non fa mai primavera (e l’andamento successivo della sua attività, al di là di questo titolo tutt’altro che eccezionale, lo sta pienamente a dimostrare, almeno a giudicare da ciò che ci è stato possibile visionare qui da noi in Italia, anche se è sempre molto difficile - e soprattutto azzardato - fare un bilancio oggettivo e certo su un autore o presunto tale e il suo percorso creativo, quando ci mancano molti – troppi tasselli come in questo caso).

Per tornare a Ho giurato di ucciderti (La venganza in originale) non sono certo la coerenza tematica, né tantomeno l’impegno morale e civile, profuso a piene mani, che difettano alla pellicola, semmai è proprio il contrario: si potrebbe osservare infatti che il regista, preoccupato di dare evidenza costante al suo discorso (siamo in pieno periodo franchista, non dobbiamo dimenticarlo, e già l’essergli contro creava soprattutto all’estero un alone di rispetto e di ammirazione, al di là dei meriti effettivi), finisce per subordinare alle tesi e ai messaggi che intendeva privilegiare, ogni altra  cosa che diventa secondaria, eccedendo però davvero un po’ troppo, e ne risente così il versante dinamico e drammatico del racconto, oltre che lo sviluppo stesso dell’azione, che risulta piuttosto fiacco e statico, quando non addirittura “scopertamente didascalico” (vedi il personaggio dello scrittore ramingo, quasi inserito a forza, evidente “alter ego” del regista – che pontifica spesso, enunciando e ribadendo la morale altruistica della storia).

Anche i caratteri dei personaggi risultano deboli e mal definiti, a loro volta schematicamente conformi al cliché, fino a ridursi a dei puri e semplici simboli “di comodo” per dimostrare al meglio il teorema di fondo, e i trapassi psicologici, come nella repentina, subitanea conversione dei duellanti in un finale eccessivamente accomodaticcio,  mancano non solo di una coerenza di fondo, ma anche di una, sia pur sommariamente approssimata, giustificazione realisticamente accettabile.

L’unico pregio che possiamo quindi continuare a riconoscergli ancora oggi sta in quella che vorrei definire “la parte descrittiva, ambientale e documentaristica” del contorno. In questo, il regista è capace di farci percepire ancora oggi, il senso di una crudele condizione e di una altrettanto dolorosa realtà.

E’ insomma prioritariamente il rovente, arido e sconfinato paesaggio casigliano corposamente fotografato in Eastmancolor da Mario Pacheco, a farla da padrone, tanto che quel torrido scenario assume il peso di un ossessivo, ricorrente leit-motiv, con quel sole che incombe come una maledizione biblica sulle ricurve schiene degli uomini al lavoro fra le immense distese di spighe ormai mature che riempiono l’orizzonte.

Decisamente più apprezzabile per le intenzioni che per i risultati pratici di una messa in scena discontinua e un po’ deficitaria, contiene coque alcuni brani di buona presa figurativa, come le scene del villaggio in sciopero, o ancor di più, la sequenza dell’assalto (novello Don Chisciotte contro i mulini a vento) del vecchio mietitore disperato e incarognito, contro la macchina che gli ruba il pane.

Particolarmente prestigioso (ma non sempre eccelso nella resa) il cast degli interpreti (meglio comunque il versante maschile che vede fronteggiarsi il ruvido Raf Vallone e il fascinoso Jorge Mistral). Accanto a loro come improbabile Anita, la bellissima ma poco carismatica Carmen Sevilla, la diva spagnola per eccellenza di quel periodo, paragonabile per notorietà e successo, alle nostre Sofia Loren e Gina Lollobrigida.

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