Regia di F.W. Murnau vedi scheda film
Una pittoresca poesia della semplicità, che è il terreno spoglio su cui sbocciano i sogni modesti e le timide gioie, come un ghirigoro di panna su una torta casalinga, o una lussuosa divisa da portiere sullo sfondo grigio e polveroso di un quartiere popolare. E una delicata riflessione sulla vecchiaia, che all’esterno appare come un giardino disadorno, in cui il dolore sembra un impercettibile gioco della brezza in mezzo ai pochi fiori. Chi guarda non capisce l’inerme stordimento che il trauma produce sulle stanche membra; l’umiliazione fa perdere le forze e lascia attoniti, irrigidendo il corpo e il volto in una posa di vergogna e di sconfitta. La ruota della vita gira, come un tornello, e cambia faccia anche all’ebbrezza, che dall’allegro abbandono della giovinezza si trasforma in un grottesco viaggio verso il rifugio dell’oblio. Si dimentica ciò che si è, e si travisa ciò che si è stati, in una follia retroattiva che sgretola la coscienza di sé, consegnandola alla finzione e al paradosso. Così l’anziano protagonista di questa storia diventa il claunesco interprete del proprio declino, di una mancata accettazione che assume le patetiche cadenze di un goffo, amaro e solitario psicodramma. E come davanti ad un pagliaccio, il mondo ride, convertendo in ilarità il disprezzo, ed allargando la ferita in mezzo al cuore. Murnau accompagna passo passo il suo personaggio verso il fondo dell’abisso, spingendolo affettuosamente con il palmo della mano, fino a quella sedia, appoggiata alla parete cieca del bagno dell’albergo, laggiù dove finisce il labirinto delle scale, dei corridoi e delle porte a vetri. È questa la strada senza sbocco, che significa soltanto fine; eppure la magia pindarica del cinema riesce comunque a trovare il modo di fuggire. L’inattesa virata dell’epilogo ripropone la caricatura non più come l’espressionistica maschera della sofferenza, bensì come la smorfia buffonesca della comica, in cui il grasso gusto della rivincita si stempera nella graziosa tenerezza della compassione. Der letzte Mann traduce il saliscendi dell’animo in una melodia dal movimento vario, in cui i cambi di ritmo e di registro bastano da soli a mutare la gradazione della luce che illumina i tratti ed i gesti di un uomo fatalmente costretto a recitare.
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