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Una sconfinata giovinezza

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Una sconfinata giovinezza

di FilmTv Rivista
8 stelle

Eravamo già preparati a una difesa d’ufficio: un film sull’Alzheimer di un noto autore rifiutato a Venezia, diventa un film importante per default. Soprattutto se brutto. Ma non lo è. Per il suo film più concentrato e crepuscolare, Avati ha chiamato a raccolta le principali divisioni del suo cinema: i paesaggi autunnali dell’Appennino, le riunioni famigliari gremite di nipotini e convenevoli, gli interni borghesi benestanti, anonimi, pieni di cardigan e tailleur, bei divani e penombre. Per parlare di una malattia che prima ti priva della memoria e poi ti trasforma nel bambino di te stesso, il regista di Il papà di Giovanna e di Il cuore altrove sgombra il campo da sprezzature naïf e cori da Bar Margherita. Il dramma è compresso tutto all’interno di una coppia matura e senza figli. E come tutti i drammi si scatena senza preavviso e si consuma con rapidità. Questa malattia che disarticola memoria e intelletto (Bentivoglio, celebre giornalista sportivo, deve smettere di lavorare con il progredire del male) ha però la grazia di riportarti all’infanzia. I malati di Alzheimer passano dallo sconcerto alla rabbia, all’aggressività e infine alla tenerezza e innocenza dei bambini. Il passaggio da un Bentivoglio, notevole, che confessa a sua moglie, Francesca Neri, il giacimento e il timore di un dolore sconfinato al Bentivoglio che ridiventa bambino, ci mostra la sapienza di un cinema che trasforma la paura in bellezza: la sofferenza in linguaggio, i flashback da thriller, anni 50, in idillio. Scritto con il gusto dell’intreccio di un romanziere, impregnato di malinconia e pietà, Una sconfinata giovinezza ci dice tutto ciò che non vorremmo mai conoscere di persona sull’Alzheimer, ma usa questa malattia spietata per dare corpo ancora una volta alla madre di tutte le utopie artistiche del Novecento, da Pascoli (che una passeggera in treno tiene in mano, nel sottofinale) a Orson Welles: il rimpianto dell’infanzia perduta. Un morbo dolce e abissale che neanche la genetica riuscirà mai a sconfiggere.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 41 del 2010

Autore: Mario Sesti

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