Regia di Giulio Manfredonia vedi scheda film
La notizia è che, nonostante i (contenuti) sfracelli al botteghino, la trasposizione cinematografica del personaggio più celebrato di Antonio Albanese non fa ridere. Nel senso che, sì, è ovvio che ogni tanto la risata ti scappa, perché alcune cose sono francamente irresistibili. Ma non si può accreditare Qualunquemente nel comico puro, e forse neanche nella commedia, e non so fino a che punto fosse nei piani di Procacci, Albanese e Manfredonia. Il film è una metafora cafonal pop in forma di racconto cronachistico distopico: l’estremizzazione delle situazioni, del contesto, dei personaggi, del background scenografico e costumistico (questi ultimi due di una pacchianità geniale) mette in guardia sulle derive a cui l’Italia (identificata nel piccolo, indecente paesello calabrese di Marina di Sopra) può andare incontro, o, peggio ancora, è già andata incontro. È una parabola perfettamente nostrana (ma anche provinciale) sui mali non tanto della politica (la politica è trattata per quella che è, un giochetto manicheo in mano alle tv, ad un gruppo di potentati e senza più ritegno) quanto proprio di un certo tipo di società (che poi è la sua società nella sua complessità) che si avvia sbronza ed autoreferenziale verso la devastazione di se stessa. È un film di decomposizione sociale che sin dal titolo trasmette una disillusione allarmante sul livello di volgarità in cui tranquillamente nuotiamo senza farci troppi problemi. Non fa ridere – fa sghignazzare, che è diverso – perché si esce dal cinema con una malinconia inquietante, uno sconforto totale (De Sanctis, il candidato buono, legalitario e solitario è una figura di una tristezza disarmante molto piddina) e un senso di ambiguità da non sottovalutare (compreso il personaggio tratteggiato da Sergio Rubini: come si sviluppa il suo epilogo non è volutamente molto chiaro).
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