Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Il regista di "The wrestler" ha fatto un film di specchi e di ferite. Se il continuo gioco di immagini riflesse, di corpi che cercano la perfezione artistica trovando spesso invece l'imperfezione biologica, rasenta il manierismo, l'apertura del corpo, la frattura dell'involucro osservato, esibito, concupito, riesce a versare nel film una tensione vera. Che è poi la matrice dell'angoscia e dell'umanità della brava Natalie Portman. Narrativamente il film è un fiume carsico che, a volte, appare alla luce della realtà gorgogliante di acuminate tesi (la vita e l'arte, la maternità e la frigidità); altre volte esso s'ingrotta improvviso dentro ai pori fobici della protagonista, perdendosi nei recessi di allucinazioni, di deliri psichici assoluti. Un'antitesi continua. Date queste premesse tutto si compone in una sintesi abbastanza scontata, corretta anche troppo. Se penso all'adrenalinica via crucis di "Requiem for a dream" (opera molto superiore a questa), la morte del cigno mi appare come una sorta di paradossale 'happy end'. I vetri iniziano ad andare in frantumi e la duplicazione del reale si annulla, sottrazione dopo sottrazione. L'ultimo doppio, l'ultimo riflesso che si scompone per sempre è quello della scena finale, forse la vetta dell'intero film e sicuramente uno dei momenti chiave. Nina dà l'addio al mondo, al suo pubblico, a sua madre (che in platea, condivide forse per la prima volta con lei l'emozione vera) invocando la perfezione assoluta. Ha il ventre aperto, sanguina il suo rosso sul bianco dell'abito di scena; ovviamente è un vetro che ha squarciato la carne! Insomma: un film bello o brutto? Direi, un film bello brutto... Tre stelle e l'impressione che Darren Aronofsky abbia perso una buona occasione.
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