Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Quando comincia a ballare sul filo dell’assurdità, Il cigno nero rischia perfino di far ridere, per qualche cosa che difficilmente si riesce ad accettare, anche da un folle come Aronsfsky. L’ilarità però dura poco, perché ad un certo punto il film comincia a provocare dolore fisico in chi lo vede. Molto banalmente potremmo abbassarci ai livelli della metafora più immediata, e potremmo dire che il film è il racconto di una metamorfosi malsana, dettata dalla dea dell’ambizione che cieca e cinica conduce la remissiva e stakanovista eroina della storia a trasformarsi in qualcosa d’altro. Romanzo di una formazione distruttiva, è la storia d’orrore di chi, alla ricerca del gene della passione, scopre il germe dell’ossessione, mutando il proprio essere che dovrebbe tendere al provvisorio (il ruolo nel balletto) al definitivo (la vita non-vissuta), confondendo la perfezione con il dolore.
È il dolore, il sentimento perfetto antitetico alla perfezione dell’amore – qui latitante se non in un un’accezione crudelmente materna (nella presenza inquietante di Barbara Hershey, talmente perfetta anche per il fatto che trattasi di clamorosa rentrèe) che è in realtà un concentrato di invidia ed ansia di non-vivere – a manifestarsi sottoforma di sangue, grondante dal corpo sempre più emaciato della protagonista (ma non solo), come a volersi impossessare della storia nella sua integrità, a volerla inondare con una minacciosa malvagità. Si entra in un vorticoso incubo senza fine, abitato in maniera piuttosto infame da allucinazioni che non permettono una verità certa, in cui si incontrano il sesso, la droga e la morte quasi a voler (dis)educare alla vita il puro cigno bianco Nina, che, non a caso, vittima di se stessa e della propria angoscia, si muta nel suo opposto in una trasformazione da far accapponare letteralmente la pelle. Rivelare altro sarebbe quantomeno ingiusto, perché, se lo accetti come un'allucinante visione sul potere del male in un’ottica sconvolgente, si lascia scoprire con stupore. Sgradevole, disturbante, eppure irrimediabilmente bello nella sua estetica tormentata, è un film che spiazza anche grazie alla febbrile immedesimazione di una Natalie Portman da urlo. Era dai tempi di Scarpette rosse che non vedevamo il balletto con uno stato d’animo sereno: ora proprio non lo andremo più a vedere un balletto.
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