Regia di Giuseppe Patroni Griffi vedi scheda film
Mostro del teatro italiano del Novecento, forse unico grande drammaturgo del secondo dopoguerra assieme a Diego Fabbri (escludendo il genio inarrivabile di Eduardo), il benamato e dimenticato Giuseppe Patroni Griffi ebbe la sciagurata idea di trasporre sul grande schermo uno dei suoi due capolavori teatrali (l’altro è Prima del silenzio, ultima interpretazione di Romolo Valli), portato in scena in un memorabile allestimento della Compagnia dei Giovani per la regia di Giorgio De Lullo e l’interpretazione di Valli, Rossella Falk, Elsa Albani con Carlo Giuffrè e Umberto Orsini.
Metti, una sera a cena è una di quelle opere che non può che avere dimora se non su un palcoscenico, per caratteristiche insite al testo (simultaneità delle azioni, personaggi sempre in scena, crudeltà dell’inettitudine di non poter agire nelle azioni altrui, verbosità volutamente estenuante…) che ne negano un adattamento cinematografico che non risulti perlomeno banale.
Il fatto che sia proprio l’autore a portarlo sul grande schermo impone una riflessione: il testo, al cinema, diventa una sceneggiatura, quindi un’altra cosa e bisogna distaccarsi dal modello teatrale. Il coinvolgimento di un pezzo grosso come Franco Arcalli al montaggio suggerisce anche la volontà di creare uno spettacolo fondato sul ritmo pragmatico e sulla consequenzialità lineare che non v’erano nel testo d’origine.
Si aggiungano le scenografie esemplificative di Giulio Coltellacci (in teatro Pier Luigi Pizzi aveva creato una scacchiera su cui si muovevano i personaggi come pedine di un gioco perverso), i costumi sopra le righe, le luci soffuse di Tonino Delli Colli e le musiche indimenticabili di Ennio Morricone al suo meglio. E infine il cast decisamente più glamour ed internazionale degli splendidi teatranti di cui sopra.
La storia è più che altro un pretesto per osservare le infinite triangolazioni sentimental-sessuali dei cinque personaggi in scena: lo scrittore in crisi Michele, sua moglie Nina, il loro migliore amico nonché amante di lei (e forse ex amante di lui) Max, l’amica zitella Giovanna da sempre innamorata di Michele e il puttano Ric, amante di Max e Nina. Un piccolo clan che vive l’amicizia come una zattera cui appigliarsi per non affogare nel mare dell’insignificanza.
Purtroppo ciò che in teatro emerge con forza (lo svuotamento del significato delle parole sentimentali, il rifiuto della felicità che esclude qualcuno che resta infelice, l’opposizione ad una vita sociale che non implichi il coinvolgimento della “zattera”…), nel film si annacqua in un esercizio di regia manco troppo buono, un po’ inesperto (era il secondo esperimento di Patroni Griffi), nel tentativo commercialmente riuscito di adattare spettacolarmente una grande opera intellettuale.
Certo talora l’armonia tra immagine e musica ha il suo perché, ma tenderei ad inserirlo tra i prodotti cosiddetti modaioli dell’epoca, una ronde erotica fondata sulla vuota pesantezza delle parole tra noi leggere. Alcuni dialoghi restano comunque d’un efficacia invidiabile (che dio di drammaturgo era Patroni Griffi). A parte il quintetto, sono inseriti intermezzi vagamente inutili, come la rappresentazione di un Sei personaggi che svela la metafora, Max che si esibisce in Mackie Messer con Milly, una conferenza stampa di Michele, qualche fantasia di Ric.
Fece scandalo la piccola orgia a tre suggerita dall’intreccio di mani e da un bacio pressoché non visibile. Gli attori recitano tutti bene, nonostante qualche probabile miscasting (Annie Girardot è troppo carina per la zitella vergine Giovanna, Tony Musante appare poco perfido per Max - piccola nota: Gian Maria Volontè abbandonò il set del film perché giudicato troppo borghese), ma non tutto è fluido, non tutto si incastra bene ed è l’interessante esempio di un’opera teatrale che nel passaggio sul grande schermo perde metà della sua potenza espressiva.
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