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The Brig

Regia di Jonas Mekas vedi scheda film

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La recensione su The Brig

di (spopola) 1726792
8 stelle

Giunge per posta il copione di un dramma. Lo apro a caso e ne leggo una riga. Se va, proseguo, e magari comincio dall’inizio e leggo tutto il testo. (…) Aprite a caso il lavoro di un qualsiasi drammaturgo importante: Ibsen, Marlowe, Strindberg, Cocteau. Il linguaggio è sempre buono, come luce. E’ il linguaggio, la chiave. Schiude le porte che ci tengono rinserrati in stanze contigue (…) lo strumento dell’unificazione e della comunicazione. (…)

 Anche “The Brig” mi giunse per posta. Lo aprii, e seppi subito che sarebbe stato quello il nostro prossimo dramma. (…)

Avevamo cominciato facendo Lorca, Goodman, Rexroth, Stein, Elliot, Auden e William Carlos Williams, o drammi il cui linguaggio era quel tipo di prosa che compie quei balzi inconsci, telegrafici, di cui i poeti sono maestri: Strindberg, Cocteau, Picasso, Ashbery, Brecht, Jarry. Interessante allora osservare che le due opere culminanti del Living Theatre, quelle che ci hanno dato notorietà anche oltre i confini del nostro lavorare quotidiano,  “The Connection” e proprio questo “The Brig”, fossero invece copioni che facevano, anche con il linguaggio, un esame minuzioso della realtà attuale.

“Poesia del teatro”, dice Cocteau, senza riferimenti alla metrica (…) , che nell’opera di Brown e Gelber emerge come la distillazione, l’estrazione, la rappresentazione delle parole esatte, e l’azione della vita è quella vissuta, onesta, senza compromessi, che per il suo essere la vita stessa e non cosa fittizia, è a sua volta una sorta di poesia, qualcosa che vola, solleva, probabilmente perché (…) noi ne restiamo presi e commossi, così come siamo commossi dalla poesia quando è aderente alla vita, ci mostra la vita per come davvero è ed è quella l’unica cosa che osserva e incoraggia. (…) In Brown e Gelber c’è proprio il suggerimento di una poesia davvero  profonda, per quanto fragile essa sia (…), ma più vicina alla verità, come è sempre la vera poesia, che non tutta l’oratoria dei nostri giorni, sia che si tratti della scena o della vita vissuta. (…)

“The Brig” è una specie di inferno, ma non si tratta di un inferno teorico, né immaginario, né teologico: è  l’inferno del giudizio dell’uomo, è l’inferno di tutto ciò che chiude la gente in gabbie e traccia rigide linee. (…) “The Brig” è un testo visuale che non si propone soltanto di commuovere la mente, ma intende toccare anche le viscere. E’ il tormento di Artaud. E’ il teatro della Crudeltà, questa prigione realistica e vera che si muove sulla scena. E’ insopportabile più che compatibile; è errore più che bellezza; è isterismo più che ragione. Mira a distruggervi più che a formarvi. (…) ed è certamente più ritmo che narrazione... ed ha molto a  che fare con la luce elettrica anche per la sua rappresentazione e non è un paradosso. Nelle note introduttive, Brown scrive che il palcoscenico è inondato di luce improvvisa: bianca, luminosa e accecante, e che tutta l’azione deve essere pervasa da questa luce che diventa così parte integrante della messa in scena. (…)

Brown, in una prigione militare del Giappone dove è stato realmente recluso, fissando il vuoto davanti a sé, sull’attenti, o cadendo spossato a dormire di sera, probabilmente prostrato ma con abile tocco di scrittura, si deve essere detto: “Che roba, tutto questo!”. E uscendo di là, ha pensato di fissare il ricordo, di fare diagrammi accurati dell’architettura di quella prigione, cercando dapprima di descrivere l’accaduto in forma di romanzo. Ma poi i suoi istinti si affinarono ed egli lo trasformò in “un’dea per la scena o per un film” (e così è stato: un canovaccio adattabile alle più diversificate esperienze  della narrazione, come appunto ha dimostrato Mekas immortalando sullo schermo la sua personale versione di quella storica realizzazione teatrale, e la rilettura attualizzata di qualche anno fa ad opera di Puzo con la compagnia dei detenuti di Volterra, “La fortezza”).

In esso, nel testo oltre che nello spettacolo che ci è stato costruito sopra, si può dire che è racchiusa tutta la storia del nostro fare teatro: la ricerca di esattezza e la sua esaltazione, che va ben oltre il rigido formalismo della struttura dell’azione, effettuata utilizzando proprio tutti gli elementi della messa in scena, dalla scenografia alle coreografie, dalla musica al ritmo. In tutte le improvvisazioni, le scene indeterminate che avrebbero potuto derivare dalla mancanza di un bottone in un costume, da un piede messo fortuitamente in fallo, c’è quindi quella che si può definire “la ricerca di un Teatro del Caso”. Nel suo mettere a fuoco il culmine dell’autoumiliazione punitiva, c’è l’o stimolo ispirativo per ciò che abbiamo inteso  fare e voluto rappresentare. Nella sua veemente esposizione del logorio umano operato dall’autorità, viene infatti espressa  una critica totale della forza dannosa della nostra società: (…) “The Brig”  mette dunque a nudo e condanna le barricate che ci dividono in vittime o carnefici.

“The Brig” è allora un dramma di barricate e di prigioni, prigioni che sono entrate per breve tempo, stravolgendola completamente, anche nella  nostra personale esperienza di vita vissuta (di Judith e mia). Le prigioni ossessionano. Penso che una volta dentro non se ne viene più fuori, non ci si scrolla mai la prigione dalle ossa, non almeno finché anche l’ultima non cade.

Quando lessi il testo, immaginai il rumore delle grida, delle marce, del battere dei piedi in quella prigione, su quel selciato e lo proiettai sulla scena del nostro fare teatro. Provavo un impulso misterioso  a portare quel rumore di prigione nella stanza dove una volta il ricordo di essa aveva ucciso l’applauso. Che anche il pubblico lo senta allora, quel rumore, ne ascolti il fragore e le grida.

Quale migliore maniera per parlare di questa straordinaria e misconosciuta opera cinematografica, che utilizzare proprio le parole di Beck che ci raccontano il suo spettacolo? E’ il modo più appropriato e deciso per una contestualizzazione anche “politica”  di un davvero inconsueto e provocatorio evento teatrale e cinematografico che a mio avviso ha per molti versi “davvero segnato un’epoca”. Proseguiamo allora così per rendere  più chiaro il senso dell’operazione stessa, lasciando ancora a Beck libertà di azione e di pensiero:

Abbattere le mura. Com’è possibile assistere a “The Brig” e non volere abbattere le mura di tutte le prigioni? Liberare tutti i prigionieri. Distruggere tutte le linee bianche, ovunque. Tutte le barriere. Ma parlare alla gente di questo non basta, non è sufficiente. Si deve fare in modo allora che la gente senta in maniera frastornante tale “fracasso”, così che ovunque si oda il rumore degli applausi, il rumore degli applausi della prima, questo sia superato per intensità e fragore dal terribile rumore disturbante del cemento percosso che rimbomba nelle orecchie e da quello altrettanto ossessivo dei corridoi d’acciaio delle prigioni attraversati dai passi, dalle urla e dai comandi imperiosi degli aguzzini. Che venga avvertito con prepotenza quel rumore, che faccia loro male, che sentano quei pugni nello stomaco come un disagio che riesca finalmente a suscitare l’orrore che merita e a risvegliare, liberandolo, il vero sentimento, e che questo si amplifichi sempre più, finché ci saranno prigionieri da qualche parte.

“The Brig” è puro Teatro della Crudeltà. Qui sta l’essenza della storia del Living Theatre. E’ impossibile tagliarsene fuori come da un sogno. E’ laggiù, reale, nella cavità dello stomaco. Sfidare il pubblico. Dir loro che non si vuole coinvolgerlo. Non correre nella platea ad abbracciarlo, ma erigere invece una barriera di filo spinato fra noi e loro. Separare con prepotenza le due sezioni finché non si avverta il dolore di tale separazione, finché non nasca il desiderio e la voglia anche nel pubblico,  di abbatterla davvero quella barriera, di essere uniti. Addosso alle barricate.

Quando fummo arrestati per aver insistito a rappresentare il dramma, Judith, io, Kenneth Brown e tanti membri della compagnia e del personale, quando fummo condotti in giudizio tutti insieme, tra i capi d’imputazione figurava anche quello di aver gridato da una finestra: “ADDOSSO ALLE BARRICATE!” alla folla sottostante, in strada, che aspettava di poter entrare per assistere all’ultima replica di “The Brig”.

Fummo assolti da quell’imputazione. E giustamente, giacché questa frase non l’avevamo mai detta. Non l’avevamo mai detta semplicemente perché siamo troppo avvezzi alle pubbliche dimostrazioni e alla responsabilità di capi delle dimostrazioni, troppo fedeli al concetto gandhiano di non violenza per incitare in tal modo una folla; ma quando dovetti ascoltare a un’udienza del gran giurì tale accusa, provai per un istante la sconvolgente  sensazione del déjà vu o déjà entendu. Donde veniva tale accusa? (…) Al processo nessuno poté  testimoniare  che uno di noi, Judith o io, l’avesse detta quella frase, sebbene qualcuno che stava dalla nostra parte  dicesse che forse le parole gli erano venute sulle labbra.  Forse, dunque, questa è la spiegazione. Ma per tutta la notte sentii che ci trovavamo davvero di fronte alle barricate. Sì, vogliamo sbarazzarci di tutte le barricate, anche delle nostre e di quelle che mai potremmo erigere.

“The Brig” è Artaud. E se l’errore di Artaud fu immaginare che si potesse creare un orrore dal fantastico, la splendida scoperta di Brown è che l’orrore non è ciò che immaginiamo ma ciò che è reale.  (Julian Beck, Addosso alle barricate – New York City, luglio 1964).

 

Il pezzo sopra citato (ovviamente più corposo e complesso nel suo ripercorrere l’intero cammino del gruppo, e dal quale ho estratto soltanto i brani più pertinenti, perché direttamente riferiti  all’opera  che è oggetto di queste mie riflessioni attuali), fu scritto da Beck come prefazione all’uscita per le stampe proprio del testo di  The Brig, ma fu pubblicato dall’editore in una forma ripulita e corretta, e per questo totalmente “sgradita” al suo autore. Riproposta inevitabilmente nella sua forma purgata anche per l’edizione italiana pubblicata da Einaudi nel 1967, Beck la fa precedere da una ulteriore  “invettiva chiarificatrice” dal titolo “Mister Beck senza doppiopetto” che riporto integralmente qui di seguito per completare meglio il pensiero e definire la singolare statura morale dell’uomo:

La versione di “Addosso alle barricate” stampata in questa edizione, è Mister Beck in abiti puliti, Mister Beck gentiluomo.

L’editore ha infatti deciso di fare più di seicento alterazioni nel testo senza che lo sapessi e senza chiedermene l’autorizzazione, verbale o contrattuale. Io sono un anarchico. Non ricorro per questo in giudizio poiché non tollero ingiunzioni, predico la rivoluzione, e quando mi si chiede che cosa possiamo fare di concreto, dico, flebilmente ma deliberatamente: indebolite la struttura del sistema ovunque al potere, rendete possibile lo sviluppo della libertà di qualsiasi genere, ma non diventate mai complici anche indiretti di quei poteri prevaricanti e delle loro regole. Quando scrivo, cerco dunque di estendere queste possibilità anche all’espressione.

Ho visto le ultime bozze una settimana fa qui in prigione, benché l’editore fosse restio a mandarmele. Avevo cercato di parlarvi onestamente, a modo  mio, senza travestimenti, cercando di eliminare (fa parte dei miei obblighi verso la musa) l’ancien régime della grammatica.

Dunque la versione che appare qui è stata sottoposta a un trattamento di revisione da parte del comitato redazionale. Quasi nessuna parola è stata cambiata però, devo chiarirlo, un paio di tagli comunque ci sono, ma le revisioni tipografiche e ortografiche hanno tolto alla voce ciò che distingue la passione dall’affetto, io che vi parlo da io che scrivo invece un saggio.

Lo guardo adesso e ho un po’ l’impressione che potrei avere se il filo spinato che separa il pubblico dall’azione in “The Brig” fosse stato rimosso, perché a qualcuno è venuto in mente che senza reticolato si poteva vedere meglio. L’editore ha detto a mia madre di aver fatto modificare il manoscritto per renderlo più leggibile. Più facile capirmi se sono vestito da conformista. Voi sapete che non è questo il mio sistema. E che non sono d’accordo. Qualche errata. Fummo al Cherry Lane dal dicembre 1951 all’agosto 1952, alla Centesima Strada dal marzo 1954 al novembre 1955, alla Quattordicesima Strada dal gennaio 1959 all’ottobre 1963. I quattro paragrafi che descrivono come allestimmo “La vergine che si sposa” furono scritti da Judith e non da me. E nel settimo paragrafo dal fondo, c’è un riferimento al rumore della prigione che una volta uccise gli applausi. Si riferisce alla prima di “Molti amori”, quando ebbi un incontro cosciente con l’irreale; mentre stavo sulla scena, il rumore degli applausi fu sommerso dal ricordo del rumore nei corridoi delle Tombe.

Dapprima l’intera faccenda di questa censura  mi precipitò nella disperazione. Se nemmeno l’editore  voleva sapere cosa stavo cercando di fare, se aveva un’opinione più alta della convenzione che non dell’intenzione dell’artista di mantenere libera la letteratura, allora che cosa c’era da aspettarsi dall’uomo meno illuminato?

Ma è per questo che ho più fiducia nel popolo. Nonostante la sua ignoranza e i suoi pregiudizi spaventosi, esso ha meno da perdere quando viene la rivoluzione.

C’è un mucchio di lavoro da fare.

L’editore disse chiaro e tondo che avrebbe stampato il pezzo come voleva, a qualunque costo. Ieri, grazie all’intervento di Judith, si offrì di stampare testualmente tutto quel che volevo dire a titolo di spiegazione. Tutto qui. (Prigione di Danbury, 18 gennaio 1965).

 

Credo che sia abbastanza chiara da  ciò che è stato sopra esposto, l’importanza di quello che potrebbe essere definito a tutti gli effetti “un evento”, riconosciuto  anche a Venezia dove la pellicola fu presentata nel 1964 aggiudicandosi il primo premio nella sezione “documentari a soggetto”. Eppure il perbenismo borghese mereghettiano non lo cita nemmeno fra i titoli del suo blasonato dizionario (immagino che se lo facesse, il giudizio non potrebbe essere adesso superiore alla sufficienza, comunque) e mi sembra davvero una incomprensibile assurdità che nemmeno il Morandini ne faccia parola (sic!!!)

The Brig”, indubbiamente una pellicola di difficile reperibilità (e mi auguro che siano attribuibili a questo tali incomprensibili omissioni), è in ogni caso, insieme a The Connection , un raro supporto documentale che testimonia “fedelmente” ma non pedissequamente, la straordinaria “qualità” non soltanto teatrale degli spettacoli del Livnig (e solo per questo aspetto sarebbe opera meritoria, poiché rende tangibile la possibilità di confrontarci con una modalità di rappresentazione teatrale che ha fatto storia… e della quale, considerando gli anni in cui si è sviluppata e ha raggiunto il suo apice, rimarrebbero adesso – in mancanza di queste testimonianze visive - soltanto le labili tracce del ricordo).

Certo, ci sono gli scritti teatrali di Julian Beck… c’è per coloro che erano giovani in quegli anni lontani anche la memoria indelebile della inobliabile presenza dei loro spettacoli sulle scene Italiane protrattasi per lungo tempo e molte occasioni. Ero ancora troppo confuso e distratto per essermi “accorto” in tempo del passaggio da Milano proprio di questo “The Brig"  e non posso portare dunque al riguardo una mia personale testimonianza. Lo posso fare invece, raccontandone le emozioni profonde, per quanto riguarda una Antigone di straordinaria potenza espressiva e di un altrettanto prepotente valore accusatorio, dove a parte i protagonisti (era un’abitudine costante della compagnia), gli attori si alternavano nelle altre personificazioni sera dopo sera, così che nemmeno nella forma “essenziale” del rispetto dei ruoli e della loro ripetitività assoluta, si potessero davvero immaginare due serate  se non proprio uguali, per lo meno abbastanza corrispondenti.

Un teatro spesso gestuale, il loro, ma non solo, e questa Antigone l’ho vista almeno una decina di volte fra palcoscenici ufficiali e spartane sale delle case del Popolo, perché è proprio in una di quelle, all’Andrea del Sarto di Via Luciano Manara che approdò in prima assoluta per Firenze, grazie all’interessamento personale di Nino Filastò (allora orientato a sinistra come potrete ben immaginare: le derive berlusconiane per questo eclettico avvocato/scrittore fiorentino sarebbero arrivate molti anni dopo) che oltre ad essere membro attivo dello staff dirigenziale del circolo, era anche il regista della locale compagnia teatrale di Base con la quale anche io ho collaborato per un breve periodo. Ma sotto il profilo più “strettamente teatrale” e meno “politico” (poiché l’Antigone era davvero ”arte e politica” al tempo stesso),  porto un ricordo ancor più travolgente che riguarda la messa in scena tutta al maschile (teatro di travestimenti e di metafore) di un impressionante. indimenticabile Les Bonnes di Genet di sconvolgente  coinvolgimento rituale, visto una domenica pomeriggio al Teatro di Palazzo Durini di Milano in una platea tristemente semideserta, con fra gli interpreti, uno strepitoso Rufus Collins (che è fra i protagonisti anche di questo The Brig teatrale e cinematografico), sicuramente la migliore trasposizione scenica fra le tante che ho visto (insieme a quella della compagnia di Nuria Espert – anche interprete – per la regia di Victor Garcia –  che è stata quella più amata dall’autore – in cui dominavano i gesti ieratici e la scena simbolica della  messa cristiana,  presentata al Teatro La Pergola in occasione di una delle ormai lontanissime edizioni della  Rassegna internazionale dei Teatri Stabili che si svolgeva annualmente proprio nella mia città), di questo difficilissimo ed emblematico testo.

Tornando alla pellicola dopo tante divagazioni  teatrali,  il “The Brig” cinematografico di Mekas è ugualmente e interamente interpretato dagli attori del Living, anche se il risultato è molto di più (e di diverso) di una pura e semplice fotografia di ciò che era stato ripreso dalla scena, grazie prima di tutto (ma non solo) a un montaggio serrato e personalissimo che conferisce all’insieme una ulteriore e  forse ancora maggiore pregnanza critica rispetto al già forte testo originario.

Come si è già osservato, il dramma è stato scritto da un ex marine che sperimentò in prima persona, e quindi sulla propria pelle, la detenzione in un campo di prigionia in Giappone, e il Living lo ha messo in scena, con le sue peculiari, inusuali capacità ormai note, rappresentando alcune delle giornate di reclusione forzata di quei soldati, e ponendo l’accento soprattutto sull’omosessualità e il sadomasochismo dei secondini, facendone così un dramma sulle aberrazioni del potere e sul carcere come luogo privilegiato per il mantenimento proprio di questo potere prevaricante.  Mekas,  vedendo, lo spettacolo, decise di  filmarlo immediatamente appena finita la rappresentazione, ma alla sua maniera però. Anche se la lavorazione del film durò una sola notte (il suo costo effettivo fu di appena 1200 dollari), l’elaborazione a  cui fu sottoposto successivamente il girato, fu particolarmente complessa e travagliata, al punto che, pur essendo sostanzialmente fedele al testo, si può davvero dire che esiste una notevole differenza fra il dramma teatrale vero e proprio e quello cinematografico, ma che l’uno non tradisce minimamente le intenzioni dell’altro: Mekas ha infatti ripreso l’azione, ovviamente sempre con la macchina a mano, spesso ponendosi in mezzo al palcoscenico, fra gli attori, e registrando così soprattutto la parzialità di ciò che più emotivamente lo attraeva e lo interessava dell’insieme rispetto allo svolgimento complessivo del lavoro,  applicando in questo modo, con straordinaria aderenza e positività di risultati, le tecniche anche “selettive” del cinema-verità a una elaborazione teatrale che è a tutti gli effetti una finzione, e ribaltandone quindi la prospettiva finale, quasi a volerne ipostatizzare la fallacità stilistica (Bruno Venturi).

Talmente veritiero insomma, da essere un vero e proprio pugno nello stomaco, un film dove si respira interamente anche il sudore e la fatica degli attori che qui sono davvero molto di più dei personaggi comunque fittizi che sono chiamati a rappresentare.

A quando un recupero di un titolo così importante, anche semplicemente per una “verifica” a posteriori? Io credo che sarebbe opportuno  che qualcuno si decidesse a farlo al più presto questo recupero, anche per dare la possibilità alle nuove generazioni di confrontarsi con una esperienza così radicale e spiazzante.

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