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I fucili degli alberi

Regia di Jonas Mekas vedi scheda film

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La recensione su I fucili degli alberi

di (spopola) 1726792
8 stelle

Carneade, chi era costui? Probabilmente adesso molti si potrebbero porre  questa domanda incrociando il nome di Jonas Mekas (ma non solo il suo ovviamente, poiché un analogo quesito potrebbe essere espresso anche davanti al nome di suo fratello Adolphas, di Rogosin o di Shirley Clarke, di tutti coloro insomma che insieme al primo Cassavetes rappresentarono l’anima più feconda di un’importante corrente cinematografica di rinnovamento come quella del New American Cinema Group il cui manifesto ufficiale è del 1960, ma che ha significativi radicamenti che ne evidenziano le linee guida, già presenti in alcuni importanti lavori realizzati negli anni immediatamente precedenti, per altro strettamente collegati a tutta l’avanguardia culturale newyorkese teatrale e musicale particolarmente produttiva in quel periodo ed eversivamente “rivoluzionaria” nei risultati).

Se lo potrebbero porre con una certa cognizione di causa questo interrogativo dubbioso sicuramente i giovani di oggi, vista la coltre di silenzio che ci è caduta intorno, non certo però quelli della mia generazione che ricorderanno esattamente la fondamentale importanza di questi nomi e delle loro opere di origine, oltre che le speranze riposte nella loro innovativa  idea di  un cinema fuori da ogni schema e da ogni condizionamento, come fu appunto quella della breve stagione del movimento del cinema indipendente di New York sorto intorno alle teorizzazione della rivista Film Culture alla quale è legato in modo prioritario proprio il nome dei fratelli Mekas, che fu considerato per la sua  dirompente formula innovativa che scardinava gli schemi “classici” della narrazione ingessata di una modalità più accademica e conforme come quella degli Studios, così importante da essere valutato praticamente  analogo per la sua carica destabilizzante, alla pari con quelli più o meno contemporanei della Nouvelle Vague francese e del Free Cinema inglese, proprio per i sovvertimenti narrativi che presentava  e per le ardite concezioni un po’ francescane della messa in scena in un inedito, più diretto rapporto anche con il pubblico fruitore messo di fronte alla “cruda” verità delle immagini,  che potrebbe semmai presentare qualche punto di contatto con alcuni aspetti del nostro periodo neorealista, con particolare riferimento alla poetica zavattiniana. Cito al riguardo (o meglio chiamo in causa) proprio Rogosin  e il suo straordinario On the Bovery che è del 1956, uno dei suoi migliori risultati in assoluto e al quale deve forse molto anche il cinema di Andy Warhol/Paul Morissey , soprattutto Flesh e Trash, visto che si tratta in pratica di una  lucida e spietata indagine documentaria su una nota strada malfamata di New York che annota ciò che accade senza pontificare o esprimere condanne, così che il giudizio viene lasciato tutto allo spettatore che osserva che può valutare con la sua intelligenza. La macchina da presa infatti, in  puro stile cinéma-vérité, non aspira a formulare pesanti e inappellabili denunce politiche che ci potrebbero stare tutte, né tantomeno ad essere sensazionalista, ma si “accontenta” invece (si fa per dire, perché così è molto più incisiva e diretta) di documentare  e registrare le immagini di emarginazione  e di morte, di frustrazione e di dolore di una realtà quotidiana da molti rimossa che sono già da sole “raccapriccianti”. L’effetto – vi assicuro - è sorprendente e atroce e, nel clima di un cinema hollywoodiano fatto di sogni e fantasie, come era ed è ancora quello dell’ufficialità, addirittura destabilizzare, e tale da fare  riflettere e meditare su una condizione, mai pompata, ma proprio per la semplicità non accademica dell’esposizione.

E’ dunque davvero singolare constatare quanto sia fuggevole la memoria storica per un cinema “contro” di siffatto valore  che magari poi non ha avuto una evoluzione pari alle attese, ma che all’epoca  fece davvero “tendenza”, per lo meno nelle elite dei festival e dei cineclub, visto che quei titoli, quelle opere, ne diventarono il pane quotidiano per testimoniare una differente modalità anche americana di fare un cinema povero di finanziamenti ma fecondo di idee e di voglia di cambiare le cose.

Sicuramente i risultati non furono pari alle promesse (molte delle quali non furono poi mantenute) ma questo non giustifica il pressoché totale depennamento di una fetta così importante e propositiva della storia ufficiale della settima arte (anche i nostrani dizionari più accreditati ne portano solo labilissime tracce), poichè al di là di come poi “sono andate a finire le cose”, ne fa parte integrante, “racconta” davvero molto di  quelle inquietudini di indipendenza anche formale che diventò una specie di “bibbia” creativa così lontana da “concetto” commerciale di Hollywood, e di quello che all’epoca si definiva come “il superato cinema dei padri”, che scosse  “trasversalmente” il mondo culturale  nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, di tale rilevanza complessiva, da farci immaginare l’ipotesi in prospettiva anche di un mondo diverso (migliore?) e certamente più rivoluzionario e meno conforme di quello che ci siamo poi ritrovati a vivere e che va  invece adesso pericolosamente sempre più in senso inverso, rimangiandosi di giorno in giorno ogni conquista e avanzamento.

Per tornare a Jonas Mekas, teorizzatore assoluto dell’indipendenza economica dell’arte, posso proprio dire che questo suo Guns of the Trees (I fucili degli alberi) - titolo davvero “mitico” per un vegliardo quale io sono -  risulta essere l’esposizione più esplicita e chiara delle esplicitazioni dottrinali – che si muoveranno poi anche in differenti direzioni - del movimento, insieme però a Come back, Africa! (in italiano Africa in crisi) di Rogosin, alla prima versione – non quella che ci è poi arrivata, che rimane in ogni caso in modo diverso  ugualmente strettamente legata alla corrente, ma che per Mekas presenterebbe già inaspettati cedimenti al sistema  -  di Shadows (Ombre) di Cassavetes  e delle  opere della Clarke, quali  The connection del 1960, The Cool World del 1963 e soprattutto il “tardivo” Portrait of Jason del 1968, davvero un  interessante, bellissimo ed  “ispirato” saggio esemplificativo su cosa si dovrebbe intendere per cinema verità, che  fornisce il ritratto di un omosessuale rappresentato e ripreso frammentariamente nei vari momenti della sua giornata, con una esposizione lucida e al tempo  stesso “lirica”, proprio della sua vita che è poi quella che emerge prepotente  dall’evidenziazione degli aspetti più quotidiani  delle sue giornate, così pregnante, coinvolgente e diretta, da diventare in qualche modo  l’immagine simbolica dell’alienazione dell’uomo contemporaneo (Emanuela Martini).

Film di radicale contestazione dell’ordine delle cose (e mi riferisco nuovamente a Guns of the Trees),  lo potremmo definire  anche un interessante e riuscito esperimento riuscito di cinema beat su motivi di Allen Ginsbirg. Presenta in ogni caso caratteristiche importanti fortemente imparentate con il cinema undergraund (si potrebbe persino azzardare che ne rappresenta uno dei frutti più maturi).

Elaborato, diretto e montato da Jonas Mekas (uno dei rari casi di una realizzazione composita come quella cinematografica che chiama in causa molte funzioni che necessitano di specifiche conoscenze tecniche, in cui la paternità è solo marginalmente condivisa con altri, poiché le mansioni preponderanti sono tutte concentrate sulla stessa unità operativa ), il film  nonostante la assoluta povertà dei mezzi impiegati (la sua gestazione ricorda molto da vicino quella di Roma città aperta  di Rossellini per i finanziamenti economici praticamente inesistenti o ballerini, la necessità “imperativa” di ridurre i costi  per “farcela davvero” che induce anche ad utilizzare uno stock al momento disponibile di pellicola scaduta, pur di poter continuare a girare, un salutare prestito “salvifico” del padre dell’operatore Sheldon Rochlin e la partecipazione gratuita degli amici del gruppo) si presenta con l’impatto di una provocazione avanguardistica a volte persino un po’ disturbante nella novità dell’impianto narrativo  e nella giustapposizione quasi estemporanea di immagini e suono.

Un lavoro davvero molto ricco e articolato e di una estrema, anche un po’ immaginifica fantasia iconografica, che si appoggia su un sorprendente montaggio “analogicamente libero” che accresce notevolmente il suo prepotente simbolismo lirico, e assume il senso e la forza di una poetica accusa alla società americana massificata e falsa.

Di metafora in metafora,  di simbolo in simbolo (le immagini ci mostrano i rami degli alberi si protendono lugubremente verso il cielo, mentre sullo sfondo, invisibile ad occhi umani in un collage spericolatamente ardito, un fucile è puntato contro di loro) il film procede a scatti, mentre sullo schermo scorrono le riprese non massificate delle città e dei loro dintorni, ancora una volta  sovrapposte alle azioni e alle parole dei personaggi e  separate fra loro da frequenti stacchi realizzati con fotogrammi bianchi.

Tratta di pensieri – scriverà il regista -  sentimenti e angoscianti tentativi della mia generazione di fronte alla perplessità morale del nostro tempo. Nel film non vi è una trama vera e propria. Concepito come film episodico, orizzontale, non c’è in esso un’apparente connessione diretta nel racconto  fra una scena e quella successiva, e le scene fungono da pezzi di un più largo, timido mosaico emotivo. Dove la parola o l’immagine diretta fallisce, quando si giunge alle cose più essenziali, il modo diretto del poeta afferra l’essenza e la verità. Qui non c’è storia. Solo la gente tranquilla e felice può raccontare storie. E in questo momento della mia vita, io non sono  tranquillo né tantomeno felice. Sono totalmente e profondamente scontento invece ed è di questo che voglio parlare. Gli artisti cominciano ad esprimere  la loro ansietà – ed è un bene - in un modo più aperto e diretto. Cercano una forma  più libera che permetta loro una più ampia scala d’emozione, verità, avvertimenti, immagini,  non per portare a termine una trama divertente, ma per i fremiti della coscienza umana, per rispondere a un bisogno interiore e per scrutare a occhio nudo la coscienza dell’uomo moderno.

Non tutte le intenzioni così dichiaratamente espresse dall’autore trovano una chiara esplicitazione nel risultato pratico: spesso rimangono un po’ nebulosamente celate dietro e dentro l’ermetismo un po’ complesso di un linguaggio solo in parte messo a fuoco, che resta a tratti fumosa dichiarazione di intenti e rabbiosa provocazione fortemente datata. Nonostante i limiti che il tempo rende adesso più pensatemene farraginosi però,  quanto ci arriva esprime perfettamente, ci fa percepire tangibilmente, proprio quell’inquietudine “sommersa” di una generazione “contro” e lo fa utilizzando materiali tanto eterogenei quanto efficaci, dall’impiego del poeta Allen Ginsberg ai versi di Shelley, per pprodare a tutta una serie di metafore e allusioni spesso inquietanti  e in qualche maniera rivoluzionarie”(Marx considerava Shelley un precursore del socialismo moderno – si poteva leggere in contemporanea sulla rivista “Film Culture” – Whitehead un precursore della scienza moderna […] Ne siano coscienti o no, i giovani presenti nel film [che racconta non in progressione, ma come già accennato  attraverso simboli, metafore  e allusioni, la storia di  una coppia di bianchi, una coppia di neri e del monaco Frank nella New York contemporanea] – e Allen Ginsberg che svolge la funzione del coro – si comportano come Shelley. Per loro il nuovo non rappresenta la fine delle cose, ma l’inizio.

Forse senza una storicizzazione precisa, potrebbe essere adesso difficile stabilire se si tratti semplicemente (o poco più) di un “reperto archeologico” sopravvissuto ad un’epoca che può risultare preistoria, oppure se contenga invece ancora, nonostante il tempo trascorso e le involuzioni persino di pensiero, fermenti ugualmente utili (e utilizzabili) per lo sviluppo dei linguaggi e delle forme (più sul terreno sempre ribollente della sperimentazione dell’arte della visione che su quello strettamente politico naturalmente), ma perché non provarci allora a fare una valutazione aggiornata del merito? Sarebbe interessante verificarne le reazioni e l’interesse (naturalmente io propendo per un immutato, anche se differente positivismo della percezione).

Sulla trama

Preceduto e seguito dai versi di Shelley, il film racconta la storia di cinque giovani newyorkesi, quella diuna coppia di bianchi ( Frances e Gregory), di una di neri (Argus e Ben) e del monaco Frank. I bianchi sono infelici: la donna si sente oppressa dal dolore del mondo ed è per questo votata al suicidio; l’uomo è un inquieto senza pace. I negri, al contrario sono invece quelli che in una condizione di vita molto più tragica, reagiscono meglio alla disperazione (che è un po’ il loro pane quotidiano), poiché Ben nutre la speranza che un giorno tutto possa cambiare e Argus che aspetta un figlio, immagina  che proprio lui potrebbe forse essere l’uomo nuovo, avere diritto a un mondo diverso. Ma tutti, compreso il monaco Frank che si è ritirato in meditazione, sono ricerca spasmodica di una risposta sul perché  nel mondo “oggi” ci si suicida, da dove provengono quelle deflagrazioni dell’anima, Vagano tutti per la città dal Village a Harem, dall’Hudson al Central Park, ripercorrendo in un certo qual modo fra allusioni e simbologiche metafore, proprio i luoghi e le ragioni della vita, senza però trovare risposte positive alle loro inquietudini esistenziali. Per i bianchi, più problematici e incerti, comunque, la fine sarà tragica.

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