Regia di Alexandre Aja vedi scheda film
Una cosa è Lo Squalo di Steven Spielberg, una cosa è l’originale Piranha di Joe Dante, un’altra cosa è il Piranha di Alexandre Aja. Stiamo parlando di uno dei più interessanti registi horror degli ultimi anni, che contende il podio a Rob Zombie e Neil Marshall – anche loro rei di passi falsi, molto falsi. Le fasi alterne oggigiorno sono una costante, ma non per questo si può o si deve far finta che l’horror possa anche essere paccottaglia da pop-corn-movie. Detto questo, Piranha di Aja non è paccottaglia, ma certo non raggiunge lo stato di grazia di Alta Tensione e la rilettura azzeccata di Le Colline Hanno gli Occhi. Già Mirrors. Riflessi di Paura era, se vogliamo, “inutile”, ma almeno l’intrusione del carnale regista horror nel sottofilone delle case maledette e delle spettrali presenze – che da The Ring in avanti stanno annacquando l’horror con il loro patetismo e le loro trame fotocopia – era un’apprezabile variazione sul tema.
Il nuovo Piranha è divertente. Su questo non ci piove. Assistiamo forse al più esagerato bagno di sangue della storia del cinema. L’attacco dei piranha primitivi viene sviluppato iperbolicamente, con una accumulazione di mutilazioni, efferatezze e disgusti vari, che non può essere secondo a nessuno per le dimensioni della mattanza – anche se l’attacco del coccodrillo assassino di Killer Crocodile, resta il migliore in assoluto, e la mattanza non è di certo sminuibile. Ma anche questo è Aja. Purtroppo, la voluta esagerazione, tra l’altro concentrata in quest’unica iperbolica sequenza, svuota il resto del film che deve e può solo ossequiare l’inutilissima terza dimensione. Caso a parte gli attori. Se Elizabeth Shue non sembra invecchiare bene e al tempo stesso incarna un personaggio unidirezionale e monocorde – forse era meglio teletrasportare sul Lago Vittoria la Marge Gunderson di Frances McDormand in Fargo – non si può non dire che Jerry O’Connell, come suo solito, è una spanna e mezzo sul resto del reparto. Il nostro vecchio “amico” Ultraman, ha una recitazione personalizzata, se vogliamo fin troppo istrionica, ma pur sempre più efficace di chi, come il giovane Adam Scott, prestano solo il bel musino, o le belle poppe, alla macchina da presa e nulla più.
Il problema di Piranha è Piranha stesso. È il film concepito come macchina tritasoldi, campione al box office, etc. etc. Non è concepito come Alta Tensione, e nemmeno come un remake d’autore, ma piuttosto come un’occasione per fare soldi. Probabilmente gli ha fatti, ma a scapito di qualcosa di ben più importante: il cinema. Alexandre Aja dopotutto, estetizza l’horror e confligge la patinatura delle sensazioni lisergiche del posticcio reale con la crudescenza del corpo orrorifico. Ed è per questo che lo amiamo. Solo che in Piranha la patinatura è nauseante, mentre la deflagrazione orrorifica degli smembramenti è banalizzata. Mentre in Alta Tensione il corpo e i suoi smembramenti, per non dire le sue pornografie, si inseriva in quel percorso carnale che connota l’horror come il genere più politico tra gli esistenti, in Piranha, invece, tutto è barzelletta, è esagerazione, e anche il fratello pecoreccio di Tarantino, Eli Roth, credendo di firmare autorevolmente la pellicola con il suo cammeo, di fatto lo dequalifica, ricollegando il film ad un immaginario horror finto ed inutile che oggi ha inflazionato il genere, compreso il filone degli animal-attack-movie – genere che conosco profondamente.
Va detto anche che senza il sottotesto erotico, finanche pornografico, il film sarebbe risultato ancora più insulso e poco interessante narrativamente. Ma non bastano due belle figliole nude, e orrendamente “digitalizzate” per colpa del 3D, che ballano sottacqua per “alzare” l’indice di gradimento. Così come non bastano tutte le pruderie regolarmente castrate dalla Grande Madre Americana – retaggio della celebre Mother Duston – per vantarsi di aver girato un film sul ricordo della exploitation anni ’70 fatta di sesso e violenza. Perché in Piranha è tutto irrimediabilmente represso e castrato. Vanno notate anche una serie di caratteristiche che ad un esperto di letteratura, cultura e quindi anche cinema nordamericano non possono non dire nulla. Non solo “chi fa sesso muore”, mentre chi invece si ama si salva e sopravvive, ma anche l’aspetto tipicamente WASP aiuta nella sopravvivenza. Ad essere sinceri, molte belle biondone periscono, e la corvina protagonista invece si salva. Forse non è più una questione di livree, bensì di scelte morali. Un passo avanti è stato fatto, ma l’industria hollywoodiana è ancora lontana dall’affrancarsi da queste tradizioni immaginifiche che educano un popolo. Ne risente anche un regista come Aja, che se gli perdoniamo le puerilità di Piranha, che comunque va visto e rivisto anche se fosse solo per la stupenda location o per Jerry O’Connell, continua ad essere il più interessante tra i nuovi registi horror. Una nuova leva che quando si confronta con i remake perde clamorosamente la propria autorialità: Rob Zombie con Halloween ha distrutto, infangato e ridicolizzato il capolavoro carpenteriano, mentre con il dittico sulla famiglia Firefly tocca i vertici più alti del new-horror.
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