Regia di Rodrigo Cortés vedi scheda film
Un film paragonabile a una scommessa, un vero e proprio esercizio di abilità anche tecnica spinto alle estreme conseguenze realizzato interamente dentro uno spazio chiuso, ristretto e angusto come può essere quello di una bara. Si può dunque dire che il regista ha vinto la sua sfida anche se con qualche piccola riserva (almeno da parte mia).
Credo che quello che Rodrigo Cortés ha fatto con Buried sia paragonabile a una scommessa (prima di tutto con il pubblico) perché questa pellicola è un vero e proprio esercizio di “abilità” spinto alle estreme conseguenze e anche un po’ provocatorio (ce la farà lo spettatore a “resistere” e ad interessarsi?), visto che ha scelto di “girare” un intero film dentro uno spazio chiuso e ristretto, che più angusto non potrebbe essere, poiché si tratta di una bara.
Lo potremmo definire un ingegnoso thriller sui generis e un po’ minimalista con un’”idea forte di partenza”, che è però “a suo modo” anche un sottinteso omaggio citazionista a Hitchcock e alle sue “esercitazioni acrobatiche” di un tempo (mi riferisco ovviamente a Nodo alla gola realizzato con un limitatissimo numero di piani sequenza, ma articolati in modo che alla fine sembri tutto registrato in tempo reale e in diretta per le ingegnose soluzioni messe in campo con l’intento di mascherare le inevitabili “pause” necessarie per ricaricare la pellicola nella cinepresa, ma anche a Prigionieri dell’oceano, ambientato “a cielo aperto”, e concentrato interamente su una scialuppa di salvataggio carica di naufraghi alla deriva nel mezzo di un oceano “ricostruito” in studio). E’ evidente che la tecnologia moderna può adesso renderle più ardite queste “esercitazioni”, ed è proprio ciò che fa Cortés, visto che per non smontare l’angoscia e la tensione, non porta mai davvero lo spettatore in superficie, il che è un’impresa stimolante ma anche, come si è visto, un po’ temeraria.
Il rischio era davvero grande, come può esserlo quello che si corre quando si sceglie di realizzare una storia non solo con un’unica location così particolare, ma anche con un solo personaggio, e devo dire che alla fine, il regista (pur con qualche piccola ma non secondaria riserva) la sua sfida l’ha ampiamente vinta, almeno sotto il profilo della “partecipazione” e del coinvolgimento che è costante e totale.
E’ evidente comunque che a Cortés interessa più l’involucro (il “giocattolone” che ha costruito) di quello che contiene (che è in ogni caso anche troppo “sostanzioso”) poichè gioca le sue carte migliori più che sugli stilemi del genere di riferimento, sull’intensificazione claustrofobica delle immagini che raggiungono un forte impatto proprio sul piano delle emozioni. Infatti, al di là di ciò che ha generato la condizione di “sepolto vivo” del protagonista (che ha riferimenti diretti con l’attualità e non è una banale storia un po’ fantascientifica) che pure occupa uno spazio importante nel racconto, la speciale rappresentazione delle cose, punta soprattutto nella direzione quasi subliminale di far emergere dall’inconscio le paure ataviche che ogni uomo cova e “nasconde” nel suo immaginario, e questo genera inevitabilmente un fortissimo scompenso sensoriale quasi di angosciante “soffocamento” perché per l’intera ora e mezzo circa che è la durata effettiva di una pellicola portata avanti e realizzata senza “divagazioni” o parentesi, anche lo spettatore si ritrova alla fine suo malgrado “imprigionato” dentro a quella cassa a corto d’aria.
Il “sepolto vivo” è sempre stato un genere molto frequentato sia in cinema (soprattutto negli horror) che in letteratura (ma anche in teatro se vogliamo, visto che il tema centrale di una farsaccia con la maschera fiorentina di Stenterello che narra le vicende di Ginevra degli Almieri, è proprio quello) quasi mai però in maniera così “centrale” e definitiva (stessa claustrofobica tensione, magari, ma di solito concentrata in un numero limitato di sequenze e in una costante alternanza fra il “dentro” e il “fuori”). Il parallelo più immediato che mi viene in mente (solo però nelle similitudini dell’ambientazione) è quello con The Vanishing di George Sluizer (anche se in quella pellicola i minuti nella cassa non erano poi molti, non certo l’intero film come questa volta, che credo sia davvero un caso unico in tutta la storia del cinema, di quelli da iscrivere nel Guinness dei primati). Il pensiero però per quel che mi riguarda, va immediatamente a Edgard Allan Poe (per la tematica, naturalmente, non per altre cose) e in particolare al suo racconto La sepoltura prematura, già fonte ispirativa per una delle opere meno riuscite di Roger Corman, quel Sepolto vivo realizzato nel 1962 con un tesissimo e sconvolto Ray Milland. che nonostante un’ambientazione gotica di una certa efficacia, non riusciva poi, proprio a causa della sua eccessiva staticità, a veicolare e mantenere costante, un adeguato risultato di suspense e paura (come invece accade con l’opera di Cortés).
Rimane quindi da citare come antecedente “certo” e più recente, il grande Tarantino, e non solo per il suo Grave Danger, doppio episodio conclusivo della quarta stagione del serial Tv C.S.I. - Scene di un crimine, dove l’agente Nick Stolke veniva rapito e interrato vivo in una bara di vetro, ma anche per il suo Kill Bill Vol. 2 nel quale proprio la Sposa, munita di una sola torcia e della sua abilità manuale, si trovava ad essere segregata nella scomoda posizione della sepolta viva. Già i titoli testa di Buried sono di straordinaria efficacia, con uno “scorrimento” verso l’alto delle immagini che fa sprofondare lentamente il protagonista (e con lui il pubblico) sempre più giù, in basso, nel buio pesto e decisamente claustrofobico di una bara seppellita sotterrata sotto un pesante cumulo di detriti e di sabbia, un movimento simile a una piccola vertigine che immediatamente mette nella condizione chi segue le vicenda in sala, di diventare “ansiogeno”, e soprattutto di provare la strana sensazione strettamente legata alla paura e all’attesa dell’imperscrutabile, che si definisce in genere come quella dello stato un po’ “fibrillante” del fiato sospeso. In sospensione rimane magari un poco anche la verosimiglianza della storia però, perché Cortés carica il soggetto e gli sviluppi dei suoi fili narrativi, di una massiccia dose di implicazioni che hanno precisi riferimenti “storici” relativi a una “guerra” che si sta ancora consumando, che fanno scivolare il tutto sul versante del “thriller politico” (ed è proprio in questa dimensione che a mio avviso si riscontra qualche evidente eccesso di incongruenza narrativa che finisce per turbare un poco l’equilibrio dell’insieme).
Il film è tutto concentrato sulla “tragedia” di Paul Conroy (il suo straordinario interprete, Ryan Reynold, è davvero strepitoso nel riuscire a sostenere, più che sulle sue spalle, sul suo corpo intorpidito e intrappolato in un loculo che gli permette solo ridottissime possibilità di movimento, non soltanto il “peso” del personaggio, ma anche quello dell’intera pellicola) chiuso dentro una cassa da morto tre metri sottoterra, con il solo ausilio di una torcia, un accendino, un cellulare e una matita, unici elementi a sua disposizione per tentare di farsi individuare dai soccorritori entro 90 minuti (esattamente la durata del film vero e proprio) che è anche il tempo reso disponibile per la sopravvivenza dalla scorta di ossigeno presente nel pertugio. In crescente apprensione per la sorte del protagonista sempre più “dubbia” via via che si procede (non preoccupatevi, però perché non svelerò nulla di come va a finire), apprendiamo progressivamente che il nostro “eroe” fa di mestiere un lavoro un po’ sporco (l’autista di un contractor in Iraq) e che è stato sequestrato proprio per questo da un gruppo di presunti terroristi, ma conosciamo anche (importantissimo per appassionarsi alla sua storia), molto del suo privato (una moglie innamorata che lo aspetta trepidante, una madre smemorata e bisognosa di aiuto), e soprattutto ci rendiamo partecipi della strenua lotta contro il tempo di un uomo che non vuole assolutamente morire (e gli va dato atto che farà davvero l’impossibile per non arrendersi, nonostante l’ansia crescente che lo divora ma non lo neutralizza mai, anche quando si trova a dover far qualcosa come per esempio essere a un certo punto costretto ad utilizzare l’accendino per neutralizzare un serpente che si è insinuato nella cassa, che non è proprio favorevole all’esito felice di una conclusione, perché sappiamo bene che una fiamma accesa brucia molto ossigeno, e che questo può essere fatale quando ce n’è poco).
E’ soprattutto il telefonino che Paul utilizza per combattere la sua battaglia contro il mondo: è infatti con quello che comunica col terrorista che l’ha sequestrato e sotterrato, ed è ancora attraverso quello che informa l’FBI della sua condizione, tiene stretti contatti con la task force di salvataggio in Iraq (L’Hostage Working Group, l’unica istituzione nella quale ripone qualche piccola speranza di salvezza), viene a conoscenza di essere stato licenziato dal suo menefreghista datore di lavoro, dialoga con la madre degente in un ospizio, visiona il video dell’uccisione di un’altra sequestrata crudelmente inviatogli per costringerlo a girarne a sua volta un altro su se stesso da divulgare attraverso i media, e dà un addio straziato alla sua donna tanto amata.
Si potrà rilevare allora proprio da questi brevi cenni, che il regista ha davvero infilato nella bara (e quindi nel racconto) anche le infinite questioni legate all’intervento americano in Iraq, dal ruolo appunto dei contractor, alle conseguenti ripercussioni sui civili, dalle menzogne dell’esercito statunitense, al discutibile miraggio di ricchezza che ha spinto Paul e altri poveri cristi come lui a esporsi a un rischio così grande. Sono tutte questioni di ampio respiro che evidenziano la non secondaria ambizione del regista di voler utilizzare la pellicola per farne un’opera di denuncia “storicizzata” di una situazione, e probabilmente anche per fornire un ritratto particolarmente critico della nostra società.
Come si è visto, tutta costruita sul filo del telefono, la storia può contare sulla suspence abilmente creata mediante l’utilizzo strategico di una metodologia ben consolidata, quella di affidarsi a numerosi e frequenti conti alla rovescia: l’ultimatum del terrorista, per esempio, ma anche la fiamma dell’accendino che consuma l’ossigeno a cui accennavo sopra, la batteria in esaurimento del cellulare e la terra che penetra dalle fessure nella cassa come dentro a una clessidra. E il limite di un’idea geniale che utilizza un solo personaggio, sta forse proprio nel fatto che viene poi a mancare il contrappunto, perché l’assenza realistica delle figure dei nemici, dei soccorritori e dei familiari, si avverte troppo, e quindi costringe lo spettatore a dare un’ipotetica tangibilità reale a qualcosa che è solo nominato, di “immaginare” un volto per ciascuna delle molte presenze che esistono solo in forma di voce (per Adriano D’Aloia , un film così estremo nella sua provocazione, che a causa proprio di tale “assenza”, diventa alla fine negazione stessa del cinema, perché l’immagine viene sommersa e fagocitata dal linguaggio verbale e in questo si annulla, anche se lo scopo è evidente e importante: quello di potersi così concentrare soltanto sull’unica ossessiva immagine del corpo dell’ostaggio).
Fra immagini negate, e quella che può apparire anche come un’eccessiva stereotipizzazione ideologica (il protagonista non è un eroe, sembra insinuare fra le righe il regista,e forse merita anche la sua sorte, visto che è comunque “reo” di militare nelle fila dello straniero colonizzatore che pretende di esportare la democrazia a suon di bombe, ma per un interesse meramente economico, non certo umanitario) non resta alla fine anche a chi osserva dalla sala, che concentrarsi interamente sull’intensa performance (anche attoriale) del prigioniero, che è poi elemento fondamentale davvero imprescindibile, per generare (e alimentare) quell’intensificazione sensoriale progressiva a cui si accennava sopra, e sulla quale Cortés poggia il suo “mestiere” e la sua “arte” anche sul piano estetico, e quindi dello stile. Il corpo sempre in primo piano di Paul che gira e si rigira nella bara, si dimena per l’angoscia e la paura, si tende e si contorce un poco, urla, sbraita, suda, tenta di forzare la staticità assolta delle pareti, è di tale rilevanza, e il senso di soffocamento, di limitazione del movimento corporeo e d’impotenza che si avverte, così forte e realisticamente rappresentato, da trasmettersi per osmosi allo spettatore, che vive indirettamente, ma comunque in prima persona, le stesse aberranti situazioni che vede riflesse sullo schermo.
Lo stile visivo del film è ovviamente funzionale al raggiungimento di questo risultato, a partire dalla fotografia che sfrutta davvero a meraviglia tutte le modulazioni del buio, dell’oscurità, più che le sfumature cangianti della luce, ma che quando può utilizza, ugualmente con ottimi esiti, anche le tenuissime variabilità dalle diverse fonti di illuminazione e della loro differente natura (l’evanescente luminescenza del display del cellulare, la “fiammata” calda dell’accendino, i verdognoli riverberi alonati dei lightstick chimici, o gli abbacinanti raggi di un sole immaginato nel sogno di una liberazione solo fantasticata). Ma con poche, studiate, calcolatissime eccezioni, l’assoluta rigida unità di spazio, viene interrotta a volte da improvvisi movimenti di macchina che sfondano idealmente le pareti della cassa e ci mostrano per un momento in prospettiva il corpo prigioniero chiuso nella bara (una brusca zoomata all’indietro indispensabile per “allargare” lo spazio e allontanarsene per pochi istanti, per ritornargli poi immediatamente addosso a tampinarlo da vicino, con un inverso, analogo vorticoso movimento) che contribuiscono a sottrarre il film dalla monotonia della staticità assoluta, a vivacizzarlo e a non farlo diventare “noia”: piccole mutazioni stilistiche che servono semmai ad accrescere il rapporto empatico col pubblico e lo aiutano a compenetrarsi con la necessaria tensione e a condividere anche sensorialmente questa esperienza di sotterramento percettivo, di pressione cognitiva, di asfissia emotiva (ancora D’Aloia), a boccheggiare insomma con il protagonista dentro a quel loculo, un procedimento di straordinaria efficacia che giustamente ha reso celebre l’opera, trasformandola in un vero e proprio caso, fin dalla sua presentazione al Sundance, coronata da subito da un eccezionale successo di vasta eco mediatica.
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