Regia di Rodrigo Cortés vedi scheda film
Un uomo si risveglia all’interno di una cassa sotterrata da qualche parte nel deserto iracheno. E’ Paul Conroy, un contractor, un autista di un convoglio di mezzi di assistenza rapito dai ribelli allo scopo di ottenere un riscatto da parte del governo americano. Con sé un telefono (Blackberry Curve), uno zippo made in Usa, un'orologio (marca Hamilton a sfondo nero) e due ore di tempo prima che l’aria finisca per convincere l’ambasciata americana a pagare per il suo rilascio.
Esperimento coraggioso quello di Rodrigo Cortés, ambientare tutto un film all’interno di una cassa di legno, con un unico attore (Ryan Reynolds) e cercando di tenere alta la tensione per un’ora e mezza senza cedimenti è una bella sfida. Buried va preso per quello che è: un giochino crudele orchestrato con grande malizia per provocare quel senso di claustrofobia necessario a veicolare il meccanismo di conto alla rovescia che è il motore della storia. Radicale fino all’ultima immagine la telecamera non si stacca mai da sotto terra, riprendendo l’agonia del protagonista bloccato nel peggiore degli incubi e per ironico contrappasso capace grazie alla tecnologia, di connettersi in tutto il mondo con il telefonino fornitogli dai rapitori. E’ una metafora dell’homo tecnologicus moderno? Fossilizzato nella propria vita in rigide regole ma in grado di vivere una vita virtuale grazie alla tecnologia? Forse, questi film non arrivano mai a caso, anche inconsapevolmente sublimano il senso dell’esistenza nelle immagini che propongono. Potenza del cinema di genere, fantascienza o horror che sia anche se Buried, proveniente dalla prolifica e fantasiosa Spagna non appartiene dichiaratamente ad un genere particolare.
Paul Conroy nel momento in cui viene sepolto è già socialmente morto. Le disperate telefonate verso il mondo dei vivi sono quanto di più grottesco e beffardo possano risultare in un contesto del genere, quando invece rientrano nella normalità degli sporadici rapporti umani che quotidianamente si sopportano senza rendersene conto.
Il ritorno alla madre terra di Conroy mette in risalto la follia della cassa da morto sociale che ci siamo costruiti, fatta di arroganza e centralini automatici, disinteresse e suonerie fesse, incapacità di ascoltare e burocrazia ottusa, una civiltà standardizzata su un registro di idiozia conclamata e al contempo serenamente subita. Il protagonista nelle poche manciate di minuti che gli restano e che quasi quasi coincidono con il tempo filmico –peccato quel quasi quasi - si rende conto dell’assurdità di tutto questo. Paradigma e vetta assoluta di umorismo nero e un po’ retorico il licenziamento in diretta con il suo capo del personale: da cassa da morto a cassa disoccupazione senza passare dalla cassa integrazione. In Iraq gli ammortizzatori sociali evidentemente non funzionano. In questo Buried fa centro, e un po’ ci gioca. Gioca coi colori bluastri del display del telefonino, i lampi dello zippo e la luce fluorescente di una trekking light. Gioca con le vite vendute (citazione: chi indovina vince un Blackberry) dei civili che vanno all’inferno con l’ingenua inconsapevolezza propinata dalla demagogica democrazia da asporto della politica occidentale.
Cortés narrativamente costruisce la suspance senza rendere lo spettatore onnisciente ma gli fornisce le stesse informazioni del protagonista per montare ad arte il colpo di scena finale, ovviamente da non svelare, perfettamente coerente con lo sviluppo della storia.
Qualche cosa viene sacrificato sull’altare della verosimiglianza e qualche caduta retorica stempera un po’ la tensione spostando l’attenzione dall’immagine alla sua valenza morale. Un paio di scene (quella del serpente che fa visita al tumulato, ad esempio, francamente inutile) sembrano inserite per dilatare un po’ la storia che altrimenti rischierebbe di rimanere sepolta (!) nella ripetitività. Se la storia è coerente nel rifiuto della riemersione catartica fino all’ultima immagine, è invece la messa in scena che non lo è: la macchina da presa di Cortés sonda la cassa con una mobilità in netto contrasto con la condizione di quasi immobilismo di Conroy, risolvendo l’angusta condizione del personaggio con un’agilità tutta a vantaggio dello spettatore, sollevandolo così dalla pena della totale immedesimazione. Grande difetto questo che edulcora la sensazione claustrofobica senza riuscire pienamente a farsi sofferenza e togliendo quindi tensione a tutto il film. La sensazione, al di là dell’idea sicuramente originale, è che non si sia voluto fare veramente sul serio temendo di creare qualcosa di troppo angosciante o forse è stato solo il compromesso per risolvere in maniera accettabile la quasi infilmabilità del soggetto.
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