Regia di Anton Corbijn vedi scheda film
Anton Corbijn è un regista olandese non ancora sessantenne che si è guadagnato una solida reputazione come regista di video musicali per i maggiori gruppi pop e rock internazionali.
Il padre è stato parroco protestante e sua madre è cresciuta in una famiglia di un parroco.
Forse sono dati irrilevanti, ma secondo me sono utili per cercare di capire meglio i suoi film.
In particolare, penso che THE AMERICAN risenta non poco della sua formazione, dato che è senza dubbio un film del genere “redenzione”.
E’ un film che sembra essere stato già visto. In effetti, quante sono le storie di killers che decidono di smettere e che finiscono per pagare a caro prezzo la loro scelta?
Limitandoci al panorama europeo, il cinema francese e, in parte, quello inglese, hanno offerto prove molto convincenti che hanno indagato a fondo sulla personalità, sul carattere e la parabola finale dei protagonisti.
Corbijn, quindi, per non ripetersi, doveva dare un “taglio” diverso dal solito. Il romanzo di Martin Booth, uno scrittore inglese morto nel 2004, era una buona base di partenza.
Gli elementi di diversità di questo film sono di tipo stilistico e narrativo.
L’elemento stilistico è dato dalla lentezza del film, accentuato dall’ambientazione (villaggi abruzzesi, che, sia detto incidentalmente, sono stati cercati per la location, dopo che quelli scelti prima della lavorazione erano stati duramente colpiti dal sisma che squassò l’Aquila). Non è un elemento da poco. Corbijn sceglie di dirigere un film che si mette di traverso rispetto ai classici film di killers. Qui è tutto estremamente lento; il tempo sembra non passare mai, le ore scorrono lente e non servono certo le apparizioni fugaci in qualche osteria frequentata da anziani. Un killer di professione in un paesino abruzzese: sembra quasi un ossimoro, un paradosso.
L’elemento narrativo nuovo è quello del rapporto anomalo con il parroco del villaggio (Paolo Bonacelli): non è una scelta a casaccio. E’ invece il segno dell’inizio del percorso di redenzione.
Il killer professionale, come ci insegnano i films americani (e non solo), vive nella grande città, si nasconde e si mescola tra le gente. Nessuno conosce lui e lui non conosce nessuno. Ambiente ideale per svolgere un “lavoro” come il suo. Il paesino, ancor più se di montagna, è il luogo meno adatto per un killer. Prima o poi tutti sanno cosa fai, le tue abitudini, la tua spesa, i tuoi svaghi, le tue relazioni.
Se poi diventi amico del parroco locale, non solo commetti un errore grave, ma diventa chiara una cosa: che hai deciso di “smettere” e vuoi tornare ad essere una persona come tutte le altre.
La lentezza del ritmo narrativo è elemento chiave per la definizione della trama. Il cinema americano ci insegna che il film di killer è tutto meno che lento. Inseguimenti, azione serrata, ritmo che diventa sempre più incalzante sono “segni” tipici del genere.
Il regista, invece, preferisce il ritmo lento di certi film francesi alla José Giovanni o Alain Corneau e, in parte di Jean-Pierre Melville (ossia i “polar” classici transalpini.
Il cinema poliziesco francese, pur se attento ammiratore del cinema poliziesco americano, si muove fra cliché tipici del cinema classico dei due Paesi. Da un lato, si tende a mantenere un ritmo meno forsennato, avendo cura di mantenere elementi tipici del cinema francese (l’attenzione al cibo e al vino, i rapporti personali, i bistrot, il villaggio francese, con la presenza della natura, del campo, degli animali ecc.); dall’altro, si assimilano alcuni caratteri del noir americano: la secchezza dei dialoghi, la durezza dei personaggi, la presenza del sadismo, la spietatezza della società ecc.
Detto questo, THE AMERICAN è molto vicino allo spirito del cinema francese, pur presentando elementi spuri degni di nota. La relazione con il parroco è, sotto questo punto di vista, assolutamente imprevedibile. A meno che esso abbia, come ricordato prima,un valore catartico. Dopo l’incidente iniziale, per il quale Jack (Clooney) ha dovuto uccidere la sua compagna Ingrid (Irina Bjorklund), si accelera un processo mentale, già peraltro iniziato da qualche tempo, che spinge Jack a staccarsi sempre più dal suo mestiere. Fino a tentare di liberarsi anche di colui a cui fa di norma riferimento per il suo lavoro.
Il prete è fin troppo facile simbolo di pacificazione che in Jack è soprattutto riappropriarsi della propria libertà e di un modo di vivere normale, fatto di cose normali, di affetti normali.
Jack non è né credente né agnostico: probabilmente o semplicemente non si è mai posto il problema. La sua mentalità è quella dei criminali del noir americano. Non c’è posto per scrupoli morali. Se si vuole evitare gli “slums”, se si vuole star fuori dalla melma, o dalle fatiche della fabbrica o dalla noia dei tanti travet, bisogna fare soldi e presto. Il mestiere di killer può essere una risposta. Tutto qua.
La processione, poi, elemento che rimanda al rosselliniano VIAGGIO IN ITALIA, è chiaramente segnale di contrasto tra la via pacifica alla normalità (“gli altri”) e la via violenta.
In Rossellini la processione è segno di una religiosità semplice, ignorante e, in parte, superstiziosa. Ma forse è la via per aprirsi agli altri, al prossimo, a Dio, senza complicazioni intellettuali.
Forse è proprio di questo di cui ha bisogno Jack. Non è certo un intellettuale e la processione è un suggerimento, un consiglio per impostare su basi diverse la propria vita.
Il finale è scontato e già visto (e, per questo, un po’ debole). Il passato presenta un conto che Jack non è in grado di pagare. Non gli è possibile sottrarsi al suo destino.
E’ la classica conclusione che è punto di unione fra noir francese e noir americano. Nessuno, soprattutto chi ha conti da pagare con la giustizia o con la propria coscienza, può sottrarsi al destino tragico.
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