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Raskolnikov

Regia di Robert Wiene vedi scheda film

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L'autore

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La recensione su Raskolnikov

di (spopola) 1726792
8 stelle

La notorietà (e l’importanza anche “storica”. ovviamente riferita al cinema) di Robert Wiene, è indubbiamente legata più che al suo effettivo talento, a una serie di contingenze (e anche di favorevoli coincidenze)  che lo hanno  portato con prepotenza (suo malgrado) sotto la luce dei riflettori, essendo rimasto il suo nome indelebilmente legato a un titolo imprescindibile (quasi un manifesto) dell’espressionismo cinematografico come Il gabinetto del Dottor Caligari.

George Sadoul per esempio, nella  breve  sintesi che fece sulla sua attività di “autore”, tradotta in italiano per le Enciclopedie Pratiche Sansoni, lo liquida così: Wiene, pur avendo firmato nel 1919 un film fondamentale della storia del cinema come “Il gabinetto del dottor Caligari”, non fu che un regista di second’ordine, essendo il successo del suo capolavoro dovuto, più che a lui, a un eccezionale incontro di interpreti, di soggettisti e scenografi. “Genuine” (1920), “Raskolnikov”  (1923) e “Orlach Hände” (1924) conservano ancora un certo interesse, ma il sonoro e le opere realizzate in quel periodo conclusivo della sua attività (“Polizeiakte 909” del 1934 e “Ultimatum” del 1939 – per altro rimasta incompiuta per la sua prematura dipartita e portata a termine da Siodmak) finirono per declassarlo definitivamente.

Dal mio punto di vista però, è paradossalmente proprio con questo Raskolnikov (ancora per Sadoul  un successo di stima o poco più)  che ci si trova invece di fronte al suo miglior risultato in assoluto, e lo dico valutando il suo lavoro principalmente nell’ottica delle “intuizioni” e della conseguente  realizzazione registica che ne viene fuori. Magari sarà ancora un  caso fortuito, ma questa volta, nonostante molte apparenti “disomogeneità” che da più parti sono state imputate alla pellicola come elementi di parziale “discredito”, tutto sembra alla fine coagulare perfettamente verso un apprezzabilissimo esito che lo spettatore  “moderno”, che può affrontarne la visione con una prospettiva critica più distanziata e meno “emotivamente” condizionata di un tempo,  riesce sicuramente meglio a misurare e comprendere.

Meno compatto e “spiazzante” del Caligari, è proprio nel confronto con tale opera  che  saltano agli occhi (per lo meno ai miei) i pregi di una messa in scena più accurata e ponderata soprattutto nell’utilizzo di un adeguato “linguaggio cinematografico” che è pertinente e problematico, ma soprattutto più ricco, inventivo e  “rischioso” di quanto non fosse quello del suo clamoroso exploit. E le  ambiziose innovazioni che si riscontrano nell’impiego creativo della macchina da presa, sono proprio quelle “specifiche” del mezzo (montaggio alternato, primi piani, sovrimpressioni, sfocature e deformazioni ottiche), riguardano insomma la forma dello stile, qui autonomo e prezioso, non esclusivamente finalizzato al diligente e “puntuale” servizio  delle stravolgenti “sperimentazioni” di soggetto, scenografia, recitazione e illuminazione. . La mano che guida il tutto è una soltanto, questa volta: il “cervello” dell’operazione che coordina (e osa) è il suo, e  viene utilizzato persino con un pizzico di spavalda spregiudicatezza.

Si coglie forse adesso  in questa modalità di rappresentazione, una “attualità” maggiore  anche nella tenuta, proprio per la sua (inusuale) capacità di mediare fra espressionismo e verismo,  con una gamma di toni che a volte può sembrare un po’ stridente (da qui alcune perplessità espresse a suo tempo) ma che ha la sua ragione di esistere (e convivere) proprio per la palese volontà di accostarsi ai contenuti umani della storia con una formulazione visiva che ne scarnifichi i significati interiori  così profondamente coinvolgenti, pur non trascendendo – né tradendo  - i limiti (se così vogliamo definirli) imposti dalla particolare concezione del fatto artistico anche cinematografico sviluppatasi in Germania nel decennio 1919-1929 (l’espressionismo, appunto) e che si ritrovano principalmente nei “richiami” strutturali delle strade e delle case, nella sordida rappresentazione deformata della scala dell’usuraia,  e soprattutto nell’illuminazione “simbolistica” delle inquadrature.

E la messa in scena (o meglio in pellicola) di  Raskolnikov mi sembra che voglia essere proprio questo,  la conseguenza  (o meglio il momentaneo approdo) di un processo di maturazione (e di autostima) di un regista più  consapevole che utilizza nuovamente i canoni espressionisti che gli hanno dato la fama, ma coagulandoli e armonizzandoli adeguatamente affinché, a contatto con la materia umana e dolente offerta dal libro di Dostoevskij,  possano prendere sostanza, lievitino e si trasformino in empatica partecipazione emotiva.

Pareva inevitabile d’altra parte che prima o poi Dostoevskij dovesse “incontrarsi” con l’espressionismo, visto che in molte opere  del periodo si tentava di sottolineare (magari indirettamente o in subordine) che tutte le sofferenze derivanti non solo dalla tirannia, ma anche dal caos, potevano e “dovevano” essere sopportate e superate con uno spirito di amore cristiano, quasi a voler significare che le metamorfosi interiori contano più di qualsiasi trasformazione del mondo esterno (una implicazione che sembrerebbe voler in qualche modo giustificare l’avversione da sempre mostrata dalla borghesia verso ogni mutamento sociale e politico fornendole il necessario alibi). E la poetica Dostoewskiana era perfetta per una interpretazione in quella direzione: James T. Farrell in un suo libro uscito nel 1944, scriveva a proposito dei Fratelli Karamazov che la rivoluzione porterebbe soltanto alla catastrofe. L’uomo deve soffrire, e l’uomo più nobile è quello che soffre non soltanto per se stesso ma per tutti i suoi simili. Poiché non è possibile cambiare il mondo,bisogna cambiare l’uomo attraverso l’amore (e il Krakauer, chiarendo così anche perché per esempio in Nosferatu soltanto l’amore di Nina riesce a sconfiggere il vampiro, e  in Destino la fanciulla può riunirsi al suo innamorato nell’aldilà soltanto grazie al suo supremo sacrificio, ci ricorda e sottolinea che  si tratta di una concezione che calza a pennello anche per rappresentare la tendenza emotiva del primo dopoguerra tedesco dello scorso secolo).

In effetti già nel 1920 c’era stato al riguardo un primo, abbozzato tentativo nel portare sullo schermo un frammento proprio dei Karamazov (Die Brüder Karamazov con la regia Carl Froelich), ma  ancora una volta è a Wiene che deve essere attribuito il merito di  essere riuscito nell’impresa con un’opera imperfetta, ma stimolante come questa.

Traducendo il romanzo di Dostoevskij nelle sue linee essenziali (suo è anche l’adattamento),  Wiene  segue nuovamente la sua inclinazione (…) a fare affidamento sulla prevalenza dell’architettura (Kurtz) ma realizza anche un dramma psicologico di rara potenza emotiva , in cui scene e personaggi sembrano veramente sorgere dall’universo di  Dostoevskij e agire  gli uni sugli altri per una specie di mutua allucinazione (L. Eisner). L’uso degli stilemi espressionisti rivitalizzati, diventa dunque non tanto il vezzo per adeguarsi alla moda del momento, ma il giusto modo per tentare di visualizzare il retroterra etico-teologico della tormentata scrittura del romanziere.

Se il mito espressionista aveva condizionato l’affermarsi di una architettura, in un certo qual modo, surreale quale  era stata quella, portata agli estremi confini dell’assurdo, utilizzata per il Caligari, per sfociare poi nel vuoto simbolismo fine a se stesso più manierato e sterile di Genuine (sempre di Wiene), con Raskolnikov, grazie al contributo del sovietico Andreev che realizza una suggestiva scenografia tutta giocata su linee oblique, quel mito che sembrava essersi lentamente “sterilizzato” nella copia conforme del modello, finalmente si dispiega, trova nuovo vigore. Conscio non solo dei propri limiti, ma anche e soprattutto delle proprie possibilità  espressive, Wiene  “sa” (almeno in questo caso lo percepisce con sufficiente precisione e  forza)  quali sono le chances effettive che quel modello rappresentativo gli offre, stimola i collaboratori e utilizza al meglio le loro capacità  intuitive perché diventi maggiormente creativo. Ne nasce una Pietroburgo onirica, quasi evocata dalla febbrile tensione del protagonista, sul cui sfondo, deformato ma ricco di senso architettonico, gli attori, provenienti dal Teatro d’Arte di Stanislavskij, si inseriscono con una recitazione improntata a un naturalismo discreto che fa da straordinario contraltare anche discrepante. Si veda a titolo esemplificativo, la sequenza finale tutta giocata sui primi piani di Raskolnikov  e di Sonia contro il muro: un esempio – a mio personale giudizio – di concezione del cinema in chiave “realistica” che Wiene, forse,  non avrebbe mai sospettato di dare (e di fare). E che non avrebbe dato (né fatto) mai più, ma che in questa circostanza, “voluto” o casuale che sia il risultato, è di straordinaria pregnanza.

Ma notevoli, oltre a quella “intensamente” memorabile del delitto,  sono anche le scene  delle sequenze del sogno e degli incontri – soprattutto il secondo - con il giudice accusatore nei quali il protagonista si abbandona a fantastiche confessioni: una grossa tela di ragno in un angolo della stanza assiste attivamente al “duello fisionomico” fra il mellifluo giudice e il delirante assassino, rendendo ancora più esplicito il senso inesorabile della morsa, nella similitudine metaforica, poiché anche la casa dell’ispettore ha una sua stilizzazione visiva analoga che ritorna più volte, simile appunto a  una ragnatela che si stringe attorno alla coscienza del protagonista con quel ragno che è sempre lì in attesa, pronto a ghermire la sua preda. E anche questo gioco di “simmetrie” analogiche, prettamente espressionista, trova qui un nuovo, insospettato vigore rappresentativo: si avverte per lo meno prepotente, l’intenzione del regista di uscire dalle astrazioni (ma anche dalle pastoie) che l’indubbia “armonia compositiva” di Caligari, o il brutto intermezzo di Genuine gli avevano imposto. E in questo senso, con questa prospettiva, Raskolnikov, come già aveva osservato a suo tempo Tito Guerrini, può probabilmente dire una parola nuova allo spettatore di oggi, uscire dal valore di “documento” per entrare nella “storia” del cinema.

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