Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
“In paese di cattolici che non ama i preti, io che cattolico non sono li trovo invece simpatici” La dichiarazione, riportata non fedelmente, e di questo mi scuso, ma corretta nella sua essenza, è di Nanni Moretti e sembra il miglior viatico per introdurre un discorso relativo a La Messa è finita. Premetto per onestà che non sono un grande estimatore del Nanni romano, ne conosco bene le pellicole, sollecitato in questo da amici cinefili (e suoi appassionati difensori) e per questo dico, a ragion veduta, che ho sempre trovato molta sopravvalutazione intorno a questo regista, anzi sovente ho avuto l’impressione che ci fosse verso la sua figura una sorta di reverenza da parte di molti che lo vedevano non come uomo di cinema ma come nume tutelare di una ben definita parte politica.
Detto questo, aggiungo che invece ho trovato il film in questione molto bello, e leggendo anni dopo la frase di Moretti con la quale ho introdotto questa mia recensione, ho capito molto in merito allo spirito che avevo trovato nella mia prima visione di questa pellicola.
Don Giulio (per la prima volta l’alter ego di Moretti non si chiama Michele Apicella, e questo è già un sintomo della rottura rappresentata da questo film rispetto alla precedente produzione morettiana) torna a Roma dopo aver trascorso alcuni anni nelle missioni all’estero.
Cerca allora di ripristinare i vecchi rapporti familiari e non, ma ben presto si scontra con una realtà desolante sotto molti punti di vista. La sua famiglia è in totale disgregazione, i suoi amici sia pure in modalità differenti appaiono nel più totale sbando, privi di punti di riferimento. Qua e là fanno capolino le tragedie passate, che hanno segnato la generazione a cui appartiene il trentenne Don Giulio (siamo alla metà degli anni ’80, quindi si parla di quelli che hanno attraversato i travagliati ’70), prima fra tutte il terrorismo.
Forte valenza simbolica hanno a mio avviso gli ambienti della parrocchia in cui opera Don Giulio: muri fatiscenti bisognosi di urgenti mani di calce, edifici che odorano di vecchio e malandato. Tutto lascia trasparire una atmosfera di macerie, rappresentazione tangibile delle macerie materiali in cui si dibattono gli amici e gli affetti di Don Giulio.
Inutilmente il protagonista si spende per cambiare le cose, aiutare i suoi amici e i suoi familiari; ben presto capisce che in realtà nessuno vuole il suo aiuto neanche chi lo reclama a parole (l’amico Cesare che per superare le delusioni personali vuole affrontare un percorso di conversione) perché in realtà quello che vogliono non è affrontare uno scambio di idee ma solo disporre di un ascoltatore senza contraddittorio.
Alla fine Don Giulio torna alle sue missioni lontane (la Patagonia), mentre le note di “ritornerai” di Bruno Lauzi scandiscono i passi di una surreale scena danzante che conclude la pellicola.
Gran bel film, che induce importanti riflessioni sul tema della incomunicabilità . Può risultare solo un po’ fastidioso (almeno per me) il Michele Apicella che ogni tanto fa petulante capolino tra i pensieri del Don Giulio.
Tra i comprimari menzione particolare per il bravo Marco Messeri, nella parte dell’amico Saverio, affetto da una gravissima depressione a seguito di una delusione d’amore, al punto da voler rifiutare ogni contatto con il mondo.
Don Giulio nella sua ultima messa che chiude il film:“per voi mi sono reso conto che non posso fare nulla; ho provato ma non ce l’ho fatta.Spero sarete capaci di perdonarmi"
Coraggiosa, rompe gli schemi dei personaggi dei film precedenti (del resto tutti chiamati alla stessa maniera) e regala al pubblico (non solo al "suo pubblico") una figura di sacerdote tra le meglio raccontate al cinema
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