Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film
Dare un voto a questo film è operazione pressoché inutile e fuorviante. Shirin, di Abbas Kiarostami, è, infatti, un’opera che, per la sua valenza fortemente teorica, si potrebbe accostare all’ultimo cinema di Jean-Luc Godard: opere per cui non può valere una classica “griglia” di giudizio. Il maestro del cinema iraniano, da sempre, non si limita a fare cinema, ma (anche) teoria del cinema. Film come Close-Up o Sotto gli ulivi riescono a contenere magnificamente al loro interno un grande discorso umano ed esistenziale, e una profonda ricerca sull’arte cinematografica. Con Shirin, Kiarostami realizza probabilmente il suo film più audace e sperimentale. Di certo, l’operazione compiuta da Kiarostami non può passare inosservata: per un’ora e mezza, in un cinema, viene proiettato il film «Shirin» – popolare melodramma persiano, accostabile a Romeo e Giulietta -, di cui, però, ci è occultata la visione. Vediamo, infatti, solo i volti delle spettatrici nella sala, e udiamo unicamente il sonoro del film, in fuori campo.
Dunque, un film concettuale, metalinguistico, teorico. Ribaltando questioni cardine nel rapporto tra spettatore e film, tra enunciatore ed enunciatario, Kiarostami “sfonda” la quarta parete dell’illusione filmica, portandoci ad assumere il punto di vista dello schermo cinematografico. Il film, pur prendendo dichiaratamente spunto dalla celebre sequenza di Anna Karina in Questa è la mia vita - di nuovo Godard -, ne supera lo strutturalismo sincronico. O, per meglio dire, realizza qualcosa di diverso. Kiarostami vuole «ripercorrere la storia d’amore di Shirin attraverso i volti delle spettatrici» [frase estratta da una video-intervista al regista]. Il regista iraniano sceglie 117 donne – attrici professioniste, come nel caso di Juliette Binoche, e non – riprendendone esclusivamente i volti per catturarne le emozioni, i sentimenti. E quelle lacrime, quei sorrisi che scaturiscono dai bellissimi primi piani di Shirin possono davvero riuscire ad emozionare anche lo spettatore. Perché, come diceva John Ford, «cosa c’è di più meraviglioso di un volto umano?».
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