Regia di Edoardo Leo vedi scheda film
Ottimo l'esordio alla regia di Edoardo Leo che segna la sua maturità autoriale anche come attore. Non a caso il film è stato premiato pure all’Italian Film Festival USA, segno che l’on the road raccontato dagli italiani, lungo una striscia di terra verticale, può avere lo stesso impatto di un coast to coast di più ampie distanze. Il viaggio, le tappe, le soste, i luoghi desolati, abbandonati o anche solo non-luoghi desertici, ampi spazi tra cielo e cemento, e poi gli incontri, gli scontri, il rifugio notturno, il pasto, il bivacco, le varie peripezie, il sogno, la tragedia, la catarsi… Se c’è un genere che può più della vita stessa, quello è l’on the road, che supera in corsia di sorpasso i due generi più emblematici e rappresentativi, horror e western, grazie proprio alla sua spiccata e facile mimesi della vita. Va detto però, per chiudere il cerchio, che l’on the road è il proseguimento del western.
In tutto questo, Edoardo Leo sfoggia una consapevolezza autoriale disarmante che paradossalmente fatica a trovare nei successivi film da regista. Lo stato di grazia degli autori alla prima regia è risaputo e fisiologico, e di questo ringraziamo l’attore-regista romano, chiedendogli però di fare lo sforzo di non dirigere più il film che il pubblico vuole vedere, ma il film che lui stesso vorrebbe vedere. Dare al pubblico quello che il pubblico vuole, significa spersonalizzare la propria opera e, peggio ancora, non contribuire alla crescita artistica di un pubblico, di una comunità, di un popolo infine, che hanno bisogno di provocazioni, proposte nuove, nuovi linguaggi, nuove strutture narrative, nuove figure, variazioni intelligenti sul mito, per poter andare oltre ai propri limiti cognitivi e sapersi così ripensare attraverso una nuova rappresentazione di sé.
Piegarsi al mercato, alle tendenze, ai cliché che la commedia italiana ci ha regalato tra i ’90 e i 2000 contribuisce in gran parte al procedimento di crisi culturale e identitaria, etica e valoriale, a cui stiamo assistendo. Sono proprio quei film che non ti aspetti da un autore italiano, per genere, messa in scena o cura estetica, a cambiare le carte in tavola e a sperare in una nuova generazione più attenta alla conoscenza che all’alternanza scuola-lavoro, piuttosto che all’accumulo di ricchezza e altre mostruosità 2.0. Sono film come Diciotto anni dopo che permettono la possibilità di ripensare alle forme di rappresentazione del pensiero italiano.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta