Regia di Ken Loach vedi scheda film
Un contractor, Fergus (Mark Womack), destinato a farsi seppellire «senza musica solenne e bandiera nazionale», racconta in prima persona singolare perché non può dirsi eroe. Almeno nel Regno Unito, da dove ci giunge la voce accorata di Ken Loach il rosso, che sceglie un punto di vista ad alto rischio per dispiegare il suo film di denuncia contro la guerra in Iraq e in particolare contro i mercenari. Due criminali in trincea – Fergus, ex agente del Sas, e l’amico del cuore Frankie (John Bishop) - protetti dall’ordinanza n. 17 che assicura l’immunità agli agenti privati (poi cancellata da Obama), ci fanno da guida sulla Route Irish. Ed è lì che esplode l’auto di Frankie, di ritorno da una “missione” costata la vita a un’intera famiglia, sulla «strada più pericolosa del mondo» che porta da Baghdad all’aeroporto (e dove fu ucciso Nicola Calipari e ferita la giornalista di “il manifesto” Giuliana Sgrena). Inseguendo l’evoluzione psico-fisica di Fergus, deciso a scoprire la verità sulla morte dell’amico del cuore, Loach prende le distanze dai suoi personaggi, li manovra su una partitura a tesi, li fiancheggia senza partecipazione emotiva. In una rarefatta atmosfera da sogno, il regista inglese assiste all’evoluzione psicofisica del contractor fino all’insostenibile sequenza della tortura col metodo waterboard con cui il “nostro ragazzo” uccide il vero colpevole della strage (la “mela marcia”?). La redenzione è impossibile, l’autopunizione inevitabile. E il film, documentario mancato, si perde con le sue buone intenzioni.
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