Regia di Ken Loach vedi scheda film
Qualche volta accade che un film, invecchiando, diventi più convincente rivelando, col passare degli anni, un'attualità durissima, non prevedibile al momento della sua uscita.
Nella lingua italiana il termine mercenario è connotato negativamente, perché rimanda a un’attività non molto onorevole di servizi, generalmente militari, prezzolati dal miglior offerente. Certamente non è estranea a questa scarsa considerazione l’accusa che Petrarca, nella sua celebre Canzone all’Italia muoveva alle milizie mercenarie:
gente …che sparga ‘l sangue et venda l’alma a prezzo.
Per aggirare la forte interdizione correlata alla parola, in Italia oggi si tende a sostituirla con un sostantivo inglese: il mercenario è diventato un contractor. In realtà il contractor non si occupa, se non indirettamente, di operazioni militari, né è assunto per combattere, perché è al servizio di operatori privati, che vanno a cercare in zone di guerra fonti di guadagno e di arricchimento: viene quindi arruolato per lo più con compiti di guardia del corpo, o per sorvegliare le risorse minerarie o petrolifere che i privati riescono ad accaparrasi. Questa è la realtà che Ken Loach ci mostra in questo film, ambientato nella Route Irish, la strada maledetta che collega Bagdad al suo aeroporto, che è zona quasi franca, in cui i compiti dei contractors, a protezione degli spregiudicati affaristi che arrivano in Iraq per mettere le mani sulle ricchezze petrolifere di quel martoriato paese, vengono condotte nello spregio assoluto degli iracheni, delle loro vite e dei loro affetti.
Si direbbe che il lavoro di costoro comporti una vera e propria licenza di uccidere, per eliminare ogni forma di ostacolo, ogni scomodo testimone, ogni “turbante”, cioè ogni iracheno in cui l’esasperazione per le ingiustizie e le angherie subite abbia raggiunto un tale livello di guardia da renderlo un vero o potenziale affiliato del peggiore terrorismo.
Molte operazioni di questi mercenari sono dirette a uccidere uno o più “turbanti” senza alcuna pietà, perché la logica a cui il loro lavoro si ispira è la logica della rapina, dell’arricchimento, del disprezzo dei legittimi abitanti di quel luogo.
Direi che il regista, descrivendoci questo mondo repellente, ci dà le cose migliori del film, denunciando sia le violenze e le sopraffazioni dei nuovi colonialisti, sia la facilità con cui essi riescono ad arruolare giovani disoccupati o sottooccupati che numerosi si aggirano nella realtà post industriale delle grandi città britanniche, anche se, nel caso specifico, i motivi della scelta non mi sono sembrati sufficientemente chiariti.
Fatico a immaginare, infatti, che chi sceglie di avventurarsi in una zona di guerra con una paga estremamente alta sia capace di scrupoli morali o umanitari: temo che sappia molto bene che il suo lavoro sarà molto, molto sporco, né, di conseguenza, mi convincono molto gli sviluppi del film: il ripensamento; la ricerca di giustizia e la volontà di smascherare le verità ufficiali.
Alla luce della realtà drammatica di questi giorni, tuttavia, il film acquista una sorprendente attualità: forse non è inutile rivederlo e meditare nuovamente sulla denuncia di Ken Loach: non un capolavoro, ma certo una puntualizzazione necessaria del ruolo delle società occidentali nei paesi senza pace del Medio Oriente
Recensione postata il 18/05/2011 (e, per questo sito, parzialmente rielaborata) su
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