Regia di Julie Bertuccelli vedi scheda film
Film di chiusura a Cannes 2010, L’albero è l’opera seconda di Julie Bertuccelli, cineasta d’origine francese che nel 2003 folgorò qualche cuore con la delicata commedia umana Da quando Otar è partito. L’opus numero 2 conferma temi e stilemi, delineando un preciso percorso autoriale: come l’esordio, L’albero si sofferma sullo scavo relazionale, sulla trama di tensioni che anima un gruppo familiare in cerca di un riassestamento dopo un lutto destabilizzante; come nell’esordio, la macchina da presa affronta con sguardo documentaristico il rapporto tra persone, cose e luoghi (là la Georgia, qui, per amor di fedeltà al romanzo da cui è tratto, Our Father Who Art in the Tree di Judy Pascoe, gli immensi spazi dell’Australia), alla ricerca dei nessi che legano le persone all’intorno. Storia di una morte improvvisa che sconvolge una famiglia felice («non c’è niente di più noioso delle famiglie felici») e analisi della successiva elaborazione del lutto, il film della Bertuccelli si concentra sul simbolo di questa assenza: Simone, la figlia di otto anni, crede che il padre si sia reincarnato nell’albero di fico che occupa invadente il giardino, parla con esso, campeggia tra i suoi rami, gli affida le proprie emozioni. La pianta, intanto, influisce sulla vita dell’intera famiglia, le sue radici si allungano minando l’integrità della casa, agisce con prepotenza causando danni che paiono reazioni, risposte alle azioni di Dawn, la madre vedova, e dei suoi figli. Paiono. Perché Bertuccelli, allieva (addomesticata) del surrealismo folklorico e terreno di Iosseliani e del lirismo tragico e tangibile di Kieslowski, non varca la porta del sovrannaturale: rimane sulla superficie della realtà, e il suo albero resta un oggetto concreto. Che testimonia la necessità delle illusioni. Così il canonico dramma familiare su un tentativo di rinascita, pregno sino a una comunque educata nausea di tutti i luoghi comuni del caso, si trasforma in un film che cerca di restituire il respiro armonico che rende continui umanità e natura. E se la poesia è spesso di una puntualità troppo prevedibile, il finale, dove non ci si chiede perché, ma ci si affaccia verso la possibilità, salva l’opera dall’auto-matismo festivaliero d’autore.
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