Regia di Kornél Mundruczó vedi scheda film
Torna, apparentemente, il Béla Tarr di Almanac of Fall. E compare di nuovo, tra gli interpreti principali, quel Miklós Székely che allora aveva impersonato una delle figure chiave, un artista dalle speranze deluse, rimasto a consolare, con la sua musica e le sue dolci parole, una donna tanto più anziana di lui. Quel ruolo adesso spetta ad un altro, un giovane regista che vuole realizzare un film sul dolore, ma non riesce a trovare un attore che sappia piangere come si deve. Le lacrime, ancora una volta, restano asciutte, trattenute dal freddo che circonda l’impossibilità di comunicare. Kornél Mundruczó riprende l’idea di un’umanità senza radici e senza amore, rinchiusa tra quattro pareti, in una casa che non ha nulla di intimo, e nella quale ci si smarrisce, ci si odia, e perfino si uccide. I legami di sangue sono sfumati, sostituiti da ossessioni, dipendenze, intrighi, che definiscono inediti vincoli familiari, in cui i figli non sono tali, e i padri sono ignoti. Sarebbe bello poter trovare, a quasi trent’anni di distanza, in questa storia di anime perse, una versione attualizzata del film del grande maestro ungherese. Purtroppo, si tratta, invece, di un infelice tentativo di imitazione. L’impresa parte con slancio, come un omaggio tributato senza citazionismi, e con una gran voglia di dire le cose a modo proprio; ma, ben presto, questo piglio indipendente si arena sull’incapacità di inserire un significato in un’opera che sembra voler vivere di sola atmosfera. L’essenzialità, privata del supporto dell’allusione, diventa una sorta di reticenza insipida e sfatta, abbandonata a se stessa, su cui il racconto scivola inosservato, senza un’intonazione che permetta di riconoscerne i momenti salienti. Il riferimento al Frankenstein di Mary Shelley, che il sottotitolo indica come fonte ispiratrice, si rivela complessivamente vago e forzato, poggiando, concretamente, su pochi elementi marginali (il nome Viktor, il ghiaccio, il cimitero), oltre che, forse, sull’onnipresente odore di morte, che congela le immagini dei vivi in pallide icone prive del calore delle emozioni. L’ambiente è un teatro claustrofobico e asfittico che, tuttavia, viene meno alla sua naturale funzione, ossia quella di fare da cassa di risonanza alla desolazione interiore. In quel luogo ci sono troppo silenzio, troppa incoerenza, troppa passività per poter dare al vuoto una forma riconoscibile: la sequenzialità si disperde in una serie di flash frammentari e spenti, sprovvisti di senso compiuto, ed eccessivamente anonimi per risultare suggestivi. Un incipit sperimentale da “cinema nel cinema” prosegue, con un taglio netto nel registro e nella trama, in un cupo thriller assai povero di suspense, contenente la stilizzazione di alcuni tipici omicidi da film horror, un matrimonio né rato né consumato, una gita in macchina dall’esito fatale. Si direbbe un modesto bagaglio di idee sparse, che non si sono incontrate, e sono rimaste lì, ognuna per suo conto, a far la fila nell’anticamera del nulla. Tender Son è un film che resta sospeso a mezz’aria, come la visione esistenziale che vorrebbe trasmettere: le sorti di questo progetto si impigliano nel senso dell’attesa di cui è impregnata la storia, il messaggio inciampa, e la fine giunge, improvvisa, prima che si sia colto il reale sapore del dramma.
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