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My Joy

Regia di Sergei Loznitsa vedi scheda film

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La recensione su My Joy

di OGM
8 stelle

La strada è il mondo. Però, percorrendola, non si trova niente e tutto si può perdere. Il camionista Georgy incontra solo persone a cui non può dare alcunché, ed altre che gli tolgono ogni cosa. Quindi non gli resta che guardare, verso uno spazio deserto in cui è facile smarrirsi. Un road movie  può svilupparsi lungo un circolo vizioso, che approda drammaticamente al nulla. E questo racconto è, infatti, un cammino perverso che si avvita su se stesso, per non condurre da nessuna parte. Il viaggio, durante il quale Georgy passerà il testimone ad altri sventurati viandanti, è un progressivo depauperamento materiale e spirituale: lungo la via non si raccolgono esperienze, ma, al contrario, ci si consuma poco a poco, per poi finire vittime della voracità umana. Spostarsi da un luogo all’altro significa saccheggiare od essere saccheggiati, perché ovunque non esiste altro che la roba, che è bottino, e l’uomo, che è ladro. Sergei Loznitsa è il distaccato osservatore di una realtà rarefatta ma selvaggia, governata dalla primitiva logica del dare e prendere: un principio rozzo come l’istinto animale, che conosce solo voglie e annienta i desideri. Per questo motivo la libertà sa di morte e di follia, ed è barbaramente criminale o tragicamente stravagante. Il lutto causa il mutismo, il delirio, il rifugio nella solitudine, che sono, contemporaneamente, i postumi e i prodromi del senso della fine. Girovagare è una maldestra maniera di tentare una fuga dall’inevitabile, che viene solo rinviato, ma arriverà sempre e comunque a colpire. L’universo è una gigantesca trappola, senza alcuna via d’uscita: si è costretti a starci dentro e a farsi derubare, perché il male gira in tondo, così che prima o poi la sua traiettoria incrocerà la nostra. Questo film esprime un pessimismo gelido e meccanico, basato sull’automatismo di una lotta per la sopravvivenza che assomiglia tanto ad una catena alimentare: si succhia la sostanza altrui per mettersi in condizione di essere a propria volta mangiati. Siamo fatti di carne e denaro: la vita dei protagonisti di questa storia ruota interamente intorno al cibo, al sesso, alla merce, che formano il fango in cui essi stessi poi affonderanno. Di fronte ad uno spettacolo in cui l’avidità, applicata ad ogni tipo di miseria, è il propellente del disfacimento, si sente un gran freddo, e non è colpa della neve, che pure abbonda, nei paesaggi invernali della Russia. È il brivido di  non poter provare angoscia, perché il contenuto del messaggio è troppo palese e perentorio: la distruzione è una forza che insegue l’individuo e lo annienta, senza una valida ragione che non sia quella dell’immediata utilità o dello sfogo di un momentaneo impulso. La povertà è lo stato a cui tutto tende: è l’economicità del Creato contro cui il nostro egoismo accentratore crede invano di poter combattere. La verità è crudele e parsimoniosa, come il teatro di asfalto, ghiaccio e legno in cui i personaggi di questo film svolgono la loro anonima missione, volta a perpetuare la domanda e l’offerta di occasioni proibite.  Anche la bassezza, vista dalla prospettiva neutrale della natura, assume i tratti essenziali con cui quest’ultima ci disegna, ci classifica e ci colloca nel suo schematico sistema: e Loznitsa decide di vederci anche lui in questo modo, senza le confortanti invenzioni della psicologia,  che ci nobilitano pur nella meschinità, attribuendoci il sublime privilegio di possedere un’anima. My Joy è un film dall’essenza tenue e volgare, sfilacciato come le congiunture del caso e lo zigzagante profilo dei nostri bioritmi: i mutevoli azzardi che ci rendono ora remissivi, ora intraprendenti, ma comunque destinati a fallire il nostro illusorio progetto di vivere senza commettere errori fatali.

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