Regia di Mahamat-Saleh Haroun vedi scheda film
L’Africa è terra di rivoluzioni politiche, di lotte per l’indipendenza, di guerre tribali. Ma il cinema di Ousmane Sembene ci ha insegnato che in quel continente, sullo sfondo dei grandi tumulti, la dimensione individuale è fatta di silenzio e solitudine. Il deserto è il collegamento tra l’uomo e l’orizzonte: un’accecante vastità in cui poco a poco si estinguono le speranze nel futuro. Adam Ousmane è il responsabile della piscina di un albergo di N’Djamena quando un esercito di ribelli provenienti da uno stato confinante comincia ad invadere il suo Paese. L’evento, inizialmente, non sembra preoccupare né lui, né i suoi colleghi e familiari, e nemmeno gli ospiti dell’hotel, che sono per la maggioranza turisti occidentali. Gli echi del conflitto sono i rumori degli elicotteri che passano sulle loro teste e le voci dei notiziari radiofonici; a prescindere da questi suoni minacciosi, eppure lontani, la vita quotidiana, in Ciad, procede come sempre. Le angosce che improvvisamente sopraggiungono, a turbare la serenità di Adam, sono altre e riguardano la sfera personale: la struttura presso cui è impiegato sta per essere privatizzata, e lui, che ha già raggiunto una certa età, teme di essere licenziato. Intanto il capo del quartiere lo perseguita, esigendo da lui una somma di denaro qualificata come contributo di guerra, che Adam non è in grado di versargli. La situazione precipita quando ad Adam viene davvero tolto l’incarico che ricopriva da tanti anni, e a cui teneva molto; da un giorno all’altro, quell’uomo, che tutti chiamano Champ perché è un ex campione di nuoto, si ritrova, con la divisa da portiere, a presidiare il cancello d’ingresso delle autovetture. Al suo posto viene nominato il figlio Abdel, che fino ad allora aveva lavorato al suo fianco come assistente ed apprendista. La conseguente gelosia, unita alle ristrettezze economiche, sarà la premessa di un grave tradimento. Il rancore scava lentamente l’anima, in questa storia in cui ogni istante è dilatato all’infinito, come ad indicare un’attesa che non si è mai conclusa, ed una sofferenza che ne racchiude tante, ripetute nel tempo, rimaste inespresse, nonché irrisolte. L’universalità del dolore è sottintesa nel carattere collettivo dei drammi - la povertà, la mancanza di prospettive – e non ha bisogno di essere declinata secondo i diversi registri esistenziali. Si può, però, scegliere di metterne a fuoco uno, in particolare, appartenente ad un soggetto isolato, in quanto circondato da una barriera di incomunicabilità. Adam non si intende con Abdel, con sua moglie, con la sua datrice di lavoro. Sceglierà allora di tacere, spianando così inconsapevolmente la strada al sotterfugio. Da emarginato diventerà quindi clandestino: il suo degradamento a favore del figlio, avvertito come ingiusto e mortificante, susciterà in lui un desiderio di rivalsa, che qualcuno riuscirà a manipolare con un astuto ricatto. La debolezza e la conseguente corruttibilità sono i principali effetti del disorientamento e della sensazione di impotenza provati dal singolo di fronte alla sterminata desolazione dei giorni vuoti e tutti uguali, che si accumulano solo per avvicinarlo ad una improrogabile scadenza. Nelle zone del sottosviluppo, tutto è fermo, finché non scatta l’unica evoluzione possibile, che è la corsa verso il baratro. Adam, ed altri insieme a lui, non hanno armi per arrestarla, e quindi si limitano a combatterla dentro di sé, con lo strazio del cuore. Wilson, l’amico cuoco di Adam che viene cacciato dal posto di lavoro col pretesto di una sua presunta attitudine al bere, macera l’umiliazione fino a procurarsi un infarto. Per Adam il colpo sarà di natura morale, e lo ucciderà nell’anima, lasciandolo intatto nel corpo. Sarà quel colpo a causare il grido annunciato nel titolo: un grido destinato a rimanere inudibile, perché pudicamente soffocato nell’intimo. Il regista Mahamat-Saleh Haroun realizza un cinema implicitamente melodico, scandito dal ritmo di una musica immaginata: le cadenze della sua muta armonia ci invitano a rimanere in ascolto di quel suono prolungato, che nasce come un pianto dignitoso e sommesso, refrattario ai cedimenti, ma poi si trasforma, gradualmente, in un incontrollabile acuto di disperazione. A Screaming Man è il ritratto di colui che, improvvisamente, si scopre l’unico colpevole in un ambiente di innocenti; colui che, irragionevolmente, ha infranto le leggi dell’amore ai danni del suo stesso sangue. E quindi urla, quando ormai è troppo tardi, davanti all’enormità del suo errore.
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