Regia di Daniel Vega, Diego Vega vedi scheda film
Con questo loro primo film, i fratelli peruviani Daniel e Diego Vidal Vega si aggiudicano, al Festival di Cannes del 2010, il Premio della Giuria nella sezione Un certain regard. Il protagonista è Clemente, un uomo sulla cinquantina, che vive in un quartiere popolare di Lima, dove fa il prestamista, ossia l'usuraio, un mestiere che ha ereditato dal padre. Un giorno, qualcuno, durante la sua assenza, entra nella sua abitazione e vi deposita una borsone di vimini contenente una neonata. Forse si tratta della figlia nata dal suo rapporto con una prostituta, una misteriosa Cajamarquina, di cui si sono prese le tracce. Clemente la cercherà per ogni dove: un'impresa frustrante, che si accompagnerà al vano tentativo di piazzare la banconota falsa da duecento soles che uno dei suoi clienti gli ha rifilato. Una trama esile, intorno a cui i registi intessono un'originale rappresentazione dello squallore. Il film, che si svolge quasi per intero in interni dall'aspetto disadorno e cadente, sembra non volersi staccare dalle incrostazioni che coprono le pareti delle stanze in cui Clemente abita o si reca per praticare amori mercenari. Tutto appare ancorato ad un'inerzia sporca e malata, un anticipo di morte che cova nell'anima e blocca il corpo nella ripetitività di grotteschi rituali. Sono questi a scandire il ritmo dei giorni, che trascorrono tutti uguali. Ci si accorge del passare del tempo solo perché, periodicamente, scadono gli interessi del denaro prestato, mentre sembra che l'unico riferimento, per il conteggio degli anni, sia la processione del Nuestro Señor de los Milagros, che si svolge a Lima nel mese di ottobre, e alla quale non manca mai di partecipare Sofia, la vicina di casa che Clemente presto assumerà per accudire la bambina. La ruota della vita gira senza portare da nessuna parte, e per Clemente, la cui esistenza è immersa nel silenzio, non aumenta nemmeno la ricchezza materiale. Tutto ciò che possiede – una manciata di contanti e qualche piccolo oggetto prezioso lasciatogli in pegno – si trova in una cassetta di ferro nascosta nel forno. Nel suo modesto appartamento, che funge anche da ufficio, il vuoto non è riempito nemmeno dai sogni. Sborsare ed incassare sono per lui le uniche, meccaniche attività che si aggiungono a quelle di carattere puramente fisiologico. Del resto ogni persona, intorno a lui, è ferma nella vana attesa di spiccare un impossibile volo: Sofia che si fa compilare i cruciverba dal vecchio Don Fico, per partecipare ad un concorso indetto da un quotidiano, e lo stesso Don Fico che cerca in tutti i modi di riavere con sé, facendola dimettere dall'ospedale, la donna che ama, l'anziana Rosa che è da tempo in coma. Ognuno è impegnato nella propria personale caccia ai fantasmi, che, però, è così triste e terrena da rimanere totalmente immune dal senso del mistero. Quest'ultimo è relegato nell'ambito strettamente religioso, costituito da una devozione popolare che crede ciecamente senza porre domande né pretendere di capire. Si appendono icone ai muri delle camere da letto, si accendono ceri sui comò, si cammina all'indietro di fronte alla statua di Cristo portata a spalla per le vie della città, senza interrogarsi sul significato di tutto ciò, e intanto si aspetta che qualcosa accada. Il miracolo, in quell'ambiente privo di pensiero, non è la rivelazione. È, semplicemente, il cambiamento, qualcosa che spezzi la monotonia e crei un movimento di qualsiasi tipo. È Rosa che abbandona il suo letto, che sale su un autobus e partecipa ad una festa di compleanno, anche se rimane immobile e incosciente, con gli occhi perennemente chiusi e la faccia inespressiva. È un colpo di fortuna, e magari una ventata di gioia, che vengano a trovare Sofia, risollevandola dalla sua tristezza di donna povera e sola. Soltanto Clemente preme perché tutto rimanga come è sempre stato, e quella piccola intrusa, mandatagli a tradimento, e certamente per dispetto, cessi di intralciare la sua routine. In questo Octubre si avverte l'odore casereccio di un realismo un po' ingenuo, in cui, nel finale, si intrufola un anche un filo di retorica. Complessivamente, però, questo quadro dalle tinte polverose emana un aroma pregnante ed inedito, che trasmette il senso dell'abbandono senza coloriture drammatiche né riflessioni sociologiche. È come una commedia ruspante che si sia arenata nella tetraggine di scoprirsi inutile, superata, già vista e rivista, noiosa anche nel tentativo di ritrarre i pittoreschi vizi di un'umanità primitiva.
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