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Le quattro volte

Regia di Michelangelo Frammartino vedi scheda film

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La recensione su Le quattro volte

di OGM
8 stelle

Il brulicare della vita semplice, in un microcosmo selvatico e diroccato. Sferzato dal sole e dal vento, e accarezzato dall’ombra. Una realtà minuscola e imperfetta, però pulsante di un  religioso amore per la vita. Ogni gesto è un rito devozionale, ogni movimento una preghiera, come in un presepe, come nella processione del Venerdì Santo. Uomini e animali condividono la terra e il cielo, e un po’ se li contendono, perché sono ugualmente piccoli e smarriti, nella vastità dell’universo. L’umanità ritratta da Michelangelo Frammartino è un gregge pascolante, che occupa in ordine sparso gli spazi dimenticati dalla storia, riempiendoli a suo modo di calore. Intanto la vita e la morte si incontrano nello sfumato di un dormiveglia, dove un incanto sonnolento è pace, ma anche solitudine e dolore. Ci sono posti talmente spogli e consumati dal tempo, che in essi è divenuta invisibile la soglia tra l’umano e il divino, tra la fine momentanea ed un nuovo inizio. I colpi dati per fissare una lastra tombale si confondono con i battiti del cuore di un nuovo nato, e il rantolo dell’agonia di un pastore continua nel primo vagito emesso da un capretto.  In questo film il dramma parla attraverso il bisbiglio degli uomini e il sussurro della natura: non c’è fragore, ma nemmeno armonia, e la campagna non è il luogo di un idillio. È, invece, la sede di una battaglia testarda e primitiva, che affonda le unghie nella terra, e intanto, con la bocca, invoca la magia. Il mondo è un rozzo altare, sul quale ci si innalza a fatica, scalciando e sgomitando, forse per farsi adorare, forse invece per ambire all’onore del sacrificio. Al pari di un capretto che esce per la prima volta dall’ovile, e si incammina, con i suoi simili, salendo una montagna, ogni individuo cresce, si affaccia alla vita, ma non sa bene dove vada: magari a perdersi, oppure ad immolarsi, che è poi l’unico modo per nobilitare la sua debolezza.  L’unica certezza è la ciclicità del divenire, che alterna distruzione e ricostruzione, in un affanno che, anche quando arreca gioia, è sempre screziato di rabbia. Il legno soffre per trasformarsi in carbone, e con lui la gente che lo taglia, lo trasporta, lo rimonta nella piazza del paese, ci si arrampica per sfida, lo abbatte, lo sega, lo accatasta,  lo ricopre di paglia e gli dà fuoco. È brutale il macinio dell’esistenza, i cui passaggi sono accompagnati dai lamenti del parto. E nessuno, nel creato, ne rimane esente, perché una volta muore Dio, una volta muore un uomo, una volta muore un animale, ed una volta muore un albero.  Quattro volte, in questa storia, l’anima si libera dal corpo, e si fa aria, neve, nebbia o fumo. Mentre, al suolo, rimangono le scorie aride di un passato che è già sepolto nell’oblio, prosciugato di ogni linfa, e crepitante come un cumulo di rami secchi.

 

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