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Le quattro volte

Regia di Michelangelo Frammartino vedi scheda film

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La recensione su Le quattro volte

di Peppe Comune
8 stelle

Il film inizia con dei battitori di carbone intenti nel proprio lavoro di carbonizzazione della legna. Poi si segue un vecchio pastore (Giuseppe Fuda) che vive con le sue capre in un piccolo paese dell’Aspromonte (Caulonia per l'esattezza). Sta male e la sua cura consiste nel bere un bicchiere d’acqua mischiato con della polvere raccolta nella chiesa del paese. La sua morte coincide con la nascita di un capretto. Questi cresce, incomincia a camminare, a giocare nel recinto insieme ad altri “cuccioli” e ad accompagnarsi al resto gregge nelle uscite quotidiane. Un giorno però si allontana da solo, si perde e non sa più ritrovare la strada. Va a ripararsi esausto sotto un grande abete, lo stesso che vediamo cambiare colore con lo scorrere delle stagioni, che viene, prima abbattuto, poi utilizzato come sorta di “albero della cuccagna" nell’ annuale festa dell'abete e quindi preso in consegna dai carbonai (Bruno Timpano,Nazareno Timpanoe Artemio Vellone) che lo lavoreranno per farne una cosa utile per l’inverno.

 

 

Le bellissime vette della terra di Calabria fanno da sfondo a “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino, un film fatto di sospiri che aleggiano nell’aria come foglie al vento, sospeso tra l’elegia di un mondo incantevole e la descrizione accurata di uno scenario della natura che sembra essersi sottratto dalle incurie del tempo. Le quattro volte del titolo possono riferirsi sia al tempo della vita, evidenziato dal susseguirsi ciclico degli eventi naturali che, in quanto scritti nell’ordine naturale delle cose, sanno riprodurre eternamente se stessi, che al tempo della morte con la costatazione empirica mutuata dall’assioma biblico che “polvere siamo e polvere torneremo”. In ogni caso è la natura la padrona indiscussa del film, una natura intesa nella sua accezione più ampia possibile, comprensiva cioè di ogni elemento che gli è proprio, umano ed animale, vegetale e minerale, che attraverso la reciproca indispensabilità funzionale sanno garantire il suo perpetuo rigenerarsi. Il susseguirsi delle stagioni garantiscono la ciclica variabilità dei colori e dei venti, la presenza di uomini e animali forniscono suoni e rumori, l’occhio immobile di Frammartino, invece, sa immergere tutto in un universo cognitivo di grande efficacia iconografica dove, tanto la riconoscibilità di ogni“voce” particolare, quanto i rituali canonici che danno forma concreta alle indispensabili coordinate spazio temporali, si rendono partecipi di una inestinguibile liturgia naturalistica. Perché di questo insieme compatto, Michelangelo Frammartino sa cogliere l’essenza profonda con rispetto devoto, adagiandoci allo scorrere delle immagini allo stesso modo con cui le immagini si accompagnano al naturale scorrere della vita. Adotta una presenza discreta e mai invasiva, intenta ad osservare le cose in sé, come parte un disegno più ampio scolpito nelle pieghe del tempo eterno, un disegno che può rispondere solo a se stesso se vuole continuare a germogliare i suoi frutti, che sottopone tutti al rituale canonico della vita e della morte, della gioia e del dolore, della festa e del lavoro. All’uomo non resta che il potere di sapersi armonizzare virtuosamente con esso, continuando le tradizioni dei padri e usando le feste comandate (la processione pasquale e la festa dell'abete) come il momento cardine di un sentire comune in perfetta armonia con l'ambiente che lo circonda e lo ospita. Per stessa ammissione di Frammartino, il più chiaro riferimento cinematografico è Vittorio De Seta (non a caso, le scene della festa "dell'abete" si svolgono ad Alessandria del Carretto, dove De Seta ambientò  "I dimenticati"). Ciò che mi sembra accomunarli, oltre allo “spirito meridionalista” (siciliano di nascita De Seta, milanese ma calabrese d’adozione Frammartino) è il calore etico che sanno imprimere alle immagini che passano sullo schermo, che serve ad affrancarle dalla mera descrittività di un evento per restituicele con il loro volto più vero e con tutta la carica vitale e spirituale che possono appartenergli. Vittorio De Seta è stato documentarista in senso stretto, mosso dall’urgenza di dare testimonianza di quel “mondo perduto” (questo è il titolo dato al corpus delle sue opere raccolte nella collana “Real cinema” edita dalla Feltrinelli) fatto di contadini, pastori e pescatori, sottoposto ad un vero e proprio “genocidio culturale”. Come De Seta, Frammartino sembra mosso dall’urgenza  di mostrare i piccoli e grandi doni che giornalmente è capace di fornirci la natura, di ricercare la verità attraverso il familiare miracolo della sua bellezza ancestrale. Familiarità che contrasta non poco con l’oblio di cui è stata fatta oggetto. Grande cinema etico.

 

 

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