Regia di Jorge Michel Grau vedi scheda film
Quando il capofamiglia muore improvvisamente per una strana sindrome emorragica, la madre ed i tre figli si ritrovano da soli ad affrontare quella che sembra una precaria e miserrima condizione economica. Ancora più grave è in realtà il fatto che la famiglia è dedita ad una antica quanto rituale tradizione di cannibalismo, come pure la necessità per il gruppo di trovare un nuovo leader su cui fare affidamento per le battute di caccia. Mentre il più intraprendente e giovane dei fratelli appare meno adatto per il carattere impulsivo e violento, la sorella cerca di incoraggiare il maggiore, a sua volta riflessivo ed effeminato, a prendere le redini del comando. La tragedia familiare incombe.
Horror sociale incoraggiato dal talento produttivo (oltre che artistico tout court) del messicano Del Toro, il film del giovane Jorge Michel Grau è una strana commistione dello psicodramma familiare che vanta in Sudamerica una lunga tradizione cinematografica, e delle nuove tendenze del fantastico sociale che si affacciano per la verità con maggiore insistenza sul versante europeo del cinema di lingua ispanica (Balaguerò e Amenábar docent). Da un soggetto originale dello stesso autore, per la verità sviluppato secondo una cadenza narrativa più consona alla serialità televisiva che alla misura del racconto cinematografico, questa storia cupa e introversa di una famiglia di antropofagi metropolitani in quel di Mexico City, tenta di articolare delle credibili dinamiche psicologiche all'interno di un contesto sociale di degrado ed emarginazione che si staglia sullo sfondo di una città multiforme e corrotta (prostituzione 'à la carte', poliziotti arrivisti, investigatori inetti, medici legali sadici e privi di scrupoli), per lo più riuscendo nell'intento di dare al film una dimensione di spaesamento ed involontario senso del grottesco che sono parenti prossimi tanto della confusione estetica quanto di una indecifrabile arbitrarietà etica (caccia di 'ninos de la rue' fallita miseramente, adescamenti omo- e etero- sessuali, profferte pedofile, relazioni incestuose e chi più ne ha più ne metta). A riconferma di questo galleria di dissolutezze e del senso di opprimente ineluttabilità di una storia in cui nessuno sembra salvarsi (nè chi mangia nè tantomeno chi verrebbe mangiato), l'autore pensa bene di precipitare il finale nella rocambolesca resa dei conti di un 'grand guignol' di omicidi incrociati in cui sembra sopravvivere solo il viso d'angelo di una piccola e subdola manipolatrice di debolezze maschili che ammicca, nell'apparente candore di un camice bianco, come una vorace dispensatrice di morte (vai a fidarti!) e ultima depositaria di una non meglio specificata tradizione ancestrale (Maya?... Mah?!!). E dire che stavamo quasi giudicando meno bene il remake americano del film di Garau, dimenticandoci che gli sceneggiatori (nord)americani (prima ancora di chi sta dietro la macchina da presa) sanno bene cosa significhi congruenza narrativa e coerenza della messa in scena. Addirittura una nomination all Camera d'Or a Cannes 2010.
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