Regia di Katell Quillevere vedi scheda film
L’amore non appartiene al mondo degli adulti. Almeno non nel modo in cui lo immagina Anna, che ha quattordici anni ed è convinta che volersi bene sia una magia dolce e misteriosa. Il sorriso di Pierre, il ragazzino con il quale ha un filarino adolescenziale, le suggerisce un’idea diversa rispetto alla realtà vissuta dai suoi genitori, raccontata da suo nonno, e predicata dai sacerdoti in chiesa. Anna non può sapere che quel dono così grande passa anche attraverso il dolore. È un frutto che non può maturare se non conosce il dubbio, la rinuncia, l’abbandono. Anna sviene, per l’emozione, di fronte ai riti che celebrano un momento di passaggio. Perde i sensi durante un funerale, al momento della sepoltura. In effetti, in questo film la religione è una presenza ingombrante, che pretende di spiegare la vita attraverso regole severe e formule che rimandano ad un regno inafferrabile, che non è di questa terra. La sofferenza e l’angoscia sono considerate come il marchio delle cose importanti, che, per definizione, non possono essere tanto facili. Padre François parla delle crisi di fede da cui fu colpita Madre Teresa di Calcutta. E della fine che è solo un inizio. Intanto, nel mondo reale, tutto si sfalda: il matrimonio dei genitori di Anna, la salute di suo nonno, la sua voglia di credere nella bontà di Dio. Per una creatura come Anna, fragile ed appassionata, l’esistenza è una scarica di traumi, che picconano le illusioni dell’infanzia, con l’esperienza della morte, della malattia, dello squallore dell’egoismo e della banalità dell’istinto. Al di là della soglia della pubertà sembra estendersi un oceano di pericolosa morbosità, in cui, anziché dare con altruismo, si prende con avidità. Di questo gioco, tanto umano quanto volgare, fanno parte tutte le pratiche che negano la libertà, dalle attenzioni sessuali sgradite agli anatemi intimidatori. Corpo ed anima si sentono aggrediti con uguale violenza dall’ebbrezza della carnalità e della spiritualità, il duplice effetto dello stesso potente veleno che uccide l’innocenza per esaltare la mente con cupe idolatrie prive di qualsivoglia poesia. La proiezione visibile di questo sporco gioco è l’ambiguità, che simula la coerenza per nascondere lo scivolamento verso le tentazioni proibite, che tradiscono gli impegni e ne intaccano il valore: una madre diventa gelosa della figlia che sta diventando una donna, un uomo anziano approfitta dell’affetto della sua nipotina per regalarsi un attimo di giovanile trasgressione, un padre non mantiene una promessa, un prete rischia di venir meno ai suoi voti. Anna vede tutto ciò intorno a sé, e dunque esita ad aprire il suo cuore a Pierre, al quale lo lega una tenera attrazione. Inizialmente pensa che l’abbraccio di lui, ancora piccolo e acerbo, non sia abbastanza grande e forte per offrirle un rifugio dall’incertezza, dal timore della delusione e del pentimento che incombono, come mortificanti minacce, su tutti i tipi di rapporto umano. Ogni slancio si accende e poi si spegne in un addio colmo di rancore, di pena, di rimpianto, e forse ciò è conseguenza del peccato, o forse è solo una prova a cui veniamo sottoposti per diventare migliori. Comunque sia, tutti sbagliano, facendosi inutilmente del male. E dire che sarebbe così semplice seguire quell’impulso che ci spinge a rispondere, quando qualcuno ci chiama. Un poison violent, opera prima della regista francese Katell Quillévéré, è una timida, ma intensa, elegia sulla vita come una lezione che si impara a proprie spese, anche a partire dai fallimenti degli altri, che tanto duramente colpiscono la nostra fiducia nel domani.
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