Espandi menu
cerca
The Good Heart

Regia di Dagur Kári vedi scheda film

Recensioni

L'autore

Peppe Comune

Peppe Comune

Iscritto dal 25 settembre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 174
  • Post 42
  • Recensioni 1523
  • Playlist 55
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su The Good Heart

di Peppe Comune
7 stelle

Lucas (Paul Dano) è un vagabondo che si sente “fuori dalla società civile”. Jacque (Brian Cox) è un uomo dal carattere difficile proprietario e gestore della “Casa delle ostriche”, un bar frequentato da pochi ma fedeli clienti, rigorosamente maschi. I due si conoscono in ospedale perché entrambi hanno rischiato di morire : Lucas per aver tentato il suicidio tagliandosi le vene ; Jacque perché è al suo quinto infarto. Passato il pericolo, Jacque prende Lucas a lavorare nel suo locale, gli offre un letto dove dormire e cerca di iniziarlo all’arte “umanista” di barman. L’arrivo di April (Isil De Lesco), una ragazza che ama sorseggiare champagne e parlare con tutti, mette a dura prova il loro rapporto. Lucas se n’è innamora e Jacque non sopporta che una donna gironzoli nel suo locale. Intanto, il cuore dell’uomo fa sempre strani scherzi e lui è in attesa di averne uno nuovo di zecca. 

 

 

“The Good Heart” del regista islandese Dagur Kari è una favola sui generis poco raccomandabile perché poco edificante, sull’incontro di due persone diversissime tra loro che hanno modo di conoscersi, di piacersi e di aiutarsi a vicenda. Un film che trasmette calore umano nonostante sia percorso, da un lato, dal sottofondo amaro dell’emarginazione sociale e, dall’altro lato, dalla spigolosità caratteriale di aspiranti “flaneurs” metropolitani. Insomma, si compie una sincera riflessione sulla vita facendo incontrare e guardare in uno stesso specchio, chi si è lasciato andare ad ogni vizio possibile opponendo alla gentilezza dei modi un ostinato grigiore caratteriale, e chi, con estremo candore e malcelata ingenuità, non ha mai smesso di dare importanza all’aiuto disinteressato da offrire ai più sfortunati. Con la caratterizzazione di queste due solitudini appassite, Dagur Kari si conferma un appassionato facitore di un cinema di confine, abitato da emarginati sociali per lo più intenti a confrontarsi con la propria inconsistenza esistenziale, o standosene affossati nella neve a sognare soleggiate terre caraibiche (come in “Nòi Albinòi” che è venuto prima) o a fare i conti con l’incapacità di diventare adulto di un omaccione timido e impacciato (come in “Virgin Mountain”, che è venuto dopo).

Lucas e Jacque si sono conosciuti in ospedale dove entrambi sono stati ricoverati per aver sfiorato la morte. Ed è sul confine con la morte che rimane il loro rapporto, regolato dai ritmi stravaganti del cuore malandato di Jacque, e non solo perché, quanto più sembra avvicinarsi al capolinea tanto più sembra regalare un sapore inusitato alla sua scorbutica personalità, ma anche perché, è proprio attraverso i cuori di entrambi che nasce, cresce e si fortifica un’imprevista complementarietà caratteriale tra i due (come ci suggerisce il finale “sognante”). Emblematiche sono le parole con cui lo psicologo dell’ospedale invita Lucas a “guardare la vita come ad una noce di cocco”, dura e apparentemente insignificante se si rimane alla sua superficie, fatta di scorza dura difficile da scalfire, prodiga di sorprese inaspettate, invece, se la si penetra internamente, fino ad arrivare al dolce succo che conserva. Parole che sembrano preparare ad un incontro inevitabile che dovrà necessariamente compiersi, di quelli che servono a due persone a far vedere la vita da una diversa prospettiva. Da un lato, esprimono lo spirito disincantato del ragazzo, del  suo sentirsi tagliato fuori dalla società degli uomini con poche possibilità di reintegro. “Sono un animale”, dice di se stesso, con uno spirito di sopravvivenza ridotto al minimo, sempre sul punto di soccombere al cospetto di un mondo che lascia pochissimi margini di manovra a ragazzi come lui, diseredati funzionali costretti a muoversi nella jungla mondo a raccogliere le briciole. Dall’altro lato, quelle parole sembrano dette apposta per tracciare il carattere di Jacque per il quale, dimostrarsi burbero e ostile significa calibrare a proprio piacimento la gestione di ogni tipo di rapporto umano. Lui si sente protetto solo dietro il suo atteggiamento virile, dietro l’ostentazione di un pieno dominio della sua vita. Un modo ardimentoso per esorcizzare le sue debolezze e la sua intima paura di morire.

“La casa delle ostriche” diventa naturalmente il centro nevralgico della narrazione, il luogo dove Jacque impera con la sua irriverente e mascolina personalità e Lucas ha modo di relazionarsi con gli altri e constatare quanto il suo innato altruismo possa essere d’aiuto agli altri. Il bar ha delle regole precise che non accettano deroghe :  innanzitutto, è vietato l’ingresso ai clienti occasionali, secondo, non sono ammesse donne, terza regola, è vietato essere gentili con i clienti, infine, non bisogna mai superare il numero massimo di clienti presenti nel locale che, “per definizione, non può superare le tredici persone, come Gesù e i suoi apostoli”. Insomma, una sorta di santuario maschilista dove ogni affezionato avventore può liberamente sfogare i suoi istinti senza correre il rischio di subire interferenze estranee. Ognuno si sente in pace con se stesso e con gli altri davanti al bancone di un bar, che sembra stare li apposta per fortificare lo spirito di corpo, a generare una complicità interessata intorno ai fallimenti umani che a nessuno sono risparmiati. È qui dentro che si consuma l’isolamento dal mondo di individui che vi si rintanano per cicatrizzare senza sentirsi giudicati i propri più intimi dolori. È qui dentro che Jacque cerca di insegnare a Lucas il difficile mestiere di barman, che non significa semplicemente fare un buon caffè o limitarsi a versare da bere, ma imparare ad interpretare gli umori dei clienti e sapersi regolare di conseguenza. Detto altrimenti, lo inizia ai segreti di una professione che, per sua intima natura, si nutre dello spirito mortificato dei suoi abituali avventori. “Non togliere mai un bicchiere vuoto, è la storia del cliente, racconta il suo stato d’animo, una documentazione importante che non deve essere mai alterata”, dice emblematicamente Jacque.

In questo tempio votato all’ostentazione continuata della virilità maschile, l’arrivo di una donna rischia di corrompere equilibri consolidati, spezzare quella grezza armonia su cui si regge un microcosmo umano come quello fatto di parole non allineate, sproloqui sparati a raffica e “sporche abitudini”. Le conseguenze dell’amore possono deviare il corso di abitudini consolidate per portarle in mare aperto e farle conoscere una luce tutta nuova, come quella che si è solo sognata e che ad un tratto si scopre potersi concretamente realizzare. Si veda il finale alquanto consolatorio, che sfiora i limiti del buonismo spicciolo senza mai superarlo con furba gratuità. Rimanendo fino alla fine con la sua forma originaria, che è quella di una specie particolare di favola moderna incentrata sul tema delle solitudini contemporanee. Un buon film di un autore interessante.      

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati