Regia di Dagur Kári vedi scheda film
Si guarda con affetto questo film, non se ne può fare a meno, tutto congiura ad aprire un varco anche nel cuore più indurito, e si sorride di gusto, e spesso, alle battutacce di Jacques, da antologia.
Arrivato in Italia a Torino lo scorso dicembre al Sottodiciotto filmfestival (e non dimentichiamo che la sezione era stata inaugurata da quell’altro delizioso gioiello di Micmacs à tire-larigot - L'esplosivo piano di Bazil) The good heart è la terza prova cinematografica di Dagur Kári, regista di un cinema di confine, l’Islanda, al debutto in lingua inglese, ma sempre poco distribuito e semi-sconosciuto da noi, come già avvenne con Nói Albinói, apparso e scomparso dalle sale nel 2003 come fulgida meteora.
Qui s’incontrano Paul Dano, un Lucas homeless di mitezza angelica e Brian Cox, uno strepitoso Jacques, sanguigno e luciferino, cinico e dissacratore, fumatore incallito alle prese con il quinto infarto e il bisogno di assicurarsi una successione per il suo bar-feticcio.
Il locale è un decrepito ostrica-house dove sono ammessi solo uomini. Women, il cesso, è sbarrato, il caffè, selezionato chicco per chicco, gli arriva dall’amico della Martinica e guai a non trasferirne il gusto perfetto nella tazzina (“Disgustoso!” digrigna davanti alla decima tazza lasciata intatta sul bancone, non l’assaggia nemmeno, gli basta guardarla).
L’incontro fra i due avviene in ospedale, dove Jacques arriva col defibrillatore e il cane al seguito, bestemmiando contro le infermiere che non lo lasciano fumare e non vogliono il cane. Lucas è lì accanto a riprendersi da un taglio verticale di vene ai polsi (il taglio giusto, anche se per il momento senza effetto).
Lucas è convinto di essere un animale all’ultimo scalino della selezione naturale.
Il piccolo, dolcissimo gattino che apre il film, insieme ad un violino di fondo in autentico stato di grazia, è l’unico essere vivente da stringere a sé.
Insomma, per lui non c’era scelta, tagliarsi le vene e via.
Il discorso della "noce di cocco" dello psicoterapeuta, però, lo colpisce:
“Siamo come una noce di cocco, dura e grezza fuori, ma se sai aprirla scopri il dolce frutto del cocco e potrai dividerlo con gli altri”.
Lucas ha di buono che non sa dire di no a nessuno, si convince che lo psicologo ha ragione e così fa amicizia con Jacques. Quest'ultimo decide di essere il suo Pigmalione e lo veste, gli taglia i capelli, lo rasa con un tremendo rasoio che Lucas guarda spaventato (ma neanche questa volta dice no), gli dà una camera con letto sopra il bar vicino alla camera sua (ma Lucas preferisce continuare a dormire a terra coperto da giornali).
Inizia così l’apprendistato da barman, mentre proseguono le sedute di psicoterapia di gruppo a cui partecipa anche Jacques per scrollarsi un po’ di dosso quel caratteraccio malefico, ma con risultati molto vicini allo zero.
L’arrivo come dal nulla di Avril, bionda, eterea, bevitrice solo di champagne, licenziata dal lavoro di hostess e senza fissa dimora, sarà il detonatore che farà saltare gli equilibri.
Incerto se dire di no a lei (“Manda via quella troia entro ventiquattro ore” ha ordinato Jacques) o a lui, Lucas opta per lui a favore di lei e la storia va avanti in vario modo che deve rimanere una sorpresa, perché il film è soprattutto una favola, e come una favola è ricco di tante cose belle e brutte da scoprire.
Diciamo che il caso, cinico e baro, si servirà di un’anatra di nome Dragoncello (sì, il dragoncello è uno degli ingredienti con cui Jacques l’alleva per mangiarla poi a Natale, ma non ha fatto i conti con Lucas) per portare i destini a compimento.
Nel finale, dopo tanto buio da slum newyorkese e l’acuto odore di ospedale, scoppia il colore dei Caraibi e tornano le palme e le noci di cocco, ma stavolta sono vere, non è il sogno nel visorino di plastica di Nói Albinói.
Il cuore “ buono” messo su in ospedale funziona, ha una buona frequenza, giusta pressione sanguigna e ritmo respiratorio ben regolato.
Si guarda con affetto questo film, non se ne può fare a meno, tutto congiura ad aprire un varco anche nel cuore più indurito, e si sorride di gusto, e spesso, alle battutacce di Jacques, da antologia.
La sua scorza ruvida è davvero quella di una noce di cocco.
La musica degli SlowBlow, gruppo del regista, ancora una volta fa centro, c’è qualche incursione nelle Hungarian Rhapsodies di Litsz e in musiche di Natale di varia provenienza.
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