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C'è chi dice no

Regia di Giambattista Avellino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su C'è chi dice no

di scandoniano
4 stelle

Commedia che punta all’originalità delle vicende, ma che rimane preda di una sceneggiatura che sa di dejà vu. “C’è chi dice no”, pellicola del 2011 di Giambattista Avellino, regista oramai esperto nella categoria “film corale dal cast italiano di grande talento”, narra della storia di tre laureati, intelligenti e preparati, vessati dai cosiddetti “figli di…”, che sistematicamente soffiano loro il posto che meriterebbero. I tre si organizzano per vendette trasversali ma alla fine, visto il carattere bonario e ligio dei protagonisti, finiscono per essere banalmente scoperti…

Un pezzo di Italia moderna: meritocrazia calpestata dal nepotismo, meccanismi assurdi  maleficamente oliati a perfezione, giovani bravi ma sfiduciati, baroni universitari; ma anche, altro lato della medaglia, vendetta in stile camorristico (l’”arte” della vendetta trasversale l’abbiamo inventata noi!) e sfiducia nelle forze dell’ordine (carabinieri dipinti come nelle barzellette), nonché magistratura non interpellata per indagare sui concorsi truccati o le assegnazioni indebite.

I bravi Cortellesi ed Argentero vengono affiancati dal sempre mediocre Paolo Ruffini (che al suo “a bestia!” non rinuncia nemmeno stavolta che veste i panni – un pochino damerini - di un avvocato integerrimo e serissimo). La gestione degli attori, solitamente appannaggio del regista che spesso ne trae buonissimi mix, stavolta viene inficiata da un diktat di base decisamente poco comprensibile: il piemontese Argentero e la romanaccia Cortellesi sono costretti a parlare l’idioma toscano. Le risultanze sono piuttosto pesanti: innanzitutto, per quanto bravi, non essendo “madrelingua” i due attori non riescono a nascondere l’evidente forzatura di fondo, il che fornisce un effetto stucchevole in alcuni punti; inoltre la qualità dei dialoghi a tratti ne è decisamente inficiata, al punto da non comprendere con chiarezza alcuni passaggi nei dialoghi; infine, e questa è la cosa peggiore, il tutto pare avere un effetto benefico sulla prestazione di Paolo Ruffini, che per la prima volta pare quasi un attore vero, proprio per il fatto di giocare in casa.

La valutazione del film dipende da come si considera il progetto: se la storia dei tre vessati è ritenuta utopistica (le felpe nere che aleggiano nel finale lungo le strade lascia pensare quasi ad un morbo benefico che si diffonde borsellinianamente nell’aria – morbo che almeno per ora in Italia non pare voglia diffondersi) allora non lo si può considerare che un film moralistico ed inutile; se invece lo si considera un film di denuncia e di speranza, se ne può uscire favorevolmente colpiti.

Rimane il fatto che non si ride un granché. E per una commedia è sempre sintomatico di qualcosa che non quadra.

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