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C'è chi dice no

Regia di Giambattista Avellino vedi scheda film

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La recensione su C'è chi dice no

di OGM
6 stelle

Un’indigestione di stereotipi che non pesa sullo stomaco. Perché è eccessiva, liberatoria, intrisa di quel populismo sfrenato e ruspante che fa tanto bene al cuore. La storia è surreale ed imperfetta, come i suoi personaggi, animati da un voglia di riscatto che prende il volo, indossando la maschera irriverente di un’amara forma di goliardia. Max, Irma e Samuele, tre ultratrentenni rimasti vittime delle raccomandazioni altrui, rappresentano un’Italia ferita che si fa scanzonata per sopravvivere, per mettere in atto una vendetta che nasce dalla viscere, ma finisce per diventare una rivendicazione di carattere etico, portata avanti da un vero e proprio movimento di pensiero. Le azioni dei sedicenti Pirati del Merito sono le manifestazioni di una ribellione inizialmente goffa e marginale, che, però, subito cresce sotto la spinta irresistibile dei grossi guai che combina. Una volta che è stata sfondata la frontiera del crimine, la sommossa non può che trasformarsi in rivoluzione, perché solo il caos generale può offrire una degna sistemazione  ai singoli eccessi, dando un senso politico universale alla follia di pochi. Un grande sogno si sviluppa intorno a piccoli passi falsi dalle conseguenze incontrollabili, il gioco dei ragazzacci si fa pericoloso e matura in un programma di lotta. I mezzi ed i metodi sono tanto fantasiosi quanto avventati, la condanna morale è inevitabile ed il fallimento è garantito, ma una battaglia combattuta con tanta sincera cattiveria non può che lasciare il segno. In questo film il peggio della commedia nostrana contemporanea si riunisce in ordine sparso, circondando di un grasso alone di satira stravista una trama un po’ contorta, che, però, dalla sua parte, ha la prontezza di cacciare via la prevedibilità non appena questa si affacci da un angolo del suo percorso zigzagante. A ciò si aggiunge la capacità di sprizzare veleno in maniera smodata, ammassando caricature, cliché ed assurdità, senza però mai sforare nel demenziale. La componente pulita della società si mette a far pulizia in maniera improponibile, ma con un’energia genuinamente rabbiosa che presto ci trascina nel suo gusto luciferino di farsi giustizia da sé, praticando la scorrettezza per causa di forza maggiore: un’applicazione del principio a estremi mali, estremi rimedi che si conclude allegramente nel piacere maligno di vedere di nascosto l’effetto che fa. In questa storia dall’impianto non del tutto stabile, aggrappato a sprazzi di comicità incompiuta e ad estemporanee dissonanze spacciate per boutades, le iperboli scricchiolano parecchio, come anche le semplificazioni da cronaca scandalistica di terz’ordine. Eppure, nelle mani di Giambattista Avellino e Fabio Bonifacci, rispettivamente regista e cosceneggiatore, la grossolana divisione dell’universo giovanile tra sfigati e figli di papà si rivela una sorgente di tensione sociale in grado di stuzzicare enormemente la fantasia: una questione scabrosa e sofferta che, per una volta, si presenta come una pozza di fango in cui è divertente sguazzare, sporcandosi i panni nell’Arno melmoso di un toscaneggiare spinto, tanto sguaiatamente rude quanto romanticamente saporito.

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