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Dalla vita in poi

Regia di Gianfrancesco Lazzotti vedi scheda film

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La recensione su Dalla vita in poi

di (spopola) 1726792
8 stelle

Ecco un altro “desaparecido”  o giù di lì (e naturalmente si tratta ancora una volta di una pellicola italiana meno ovvia  e più ambiziosa di quasi tutto quello che poi ci viene propinato indiscriminatamente sui nostri schermi).

Il classico esempio insomma di una  produzione “indipendente” che ancora riusciva in qualche modo ad essere messa in cantiere con le vecchie regole adesso rimesse in discussione a causa dei nuovi pesanti tagli alla Cultura, magari con la collaborazione di Rai Cinema come in questa circostanza, che non poteva evidentemente sottrarsi a un obbligo di supporto quasi istituzionale, ma che poi ha sempre fatto poco per “garantire” a ciò che aveva in parte finanziato, una adeguata visibilità distributiva, quasi  come quel marito che per far dispetto alla moglie… etc. etc.

A Dalla vita in poi  non è stato infatti sufficiente né detto contributo, né tantomeno l’essersi aggiudicata il primo premio al Taormina Filmfest 2010 per assicurarsi un confacente e tempestivo passaggio in sala perché a  quanto mi risulta, è ancora “al palo”, in attesa cioè che qualcuno si ricordi (se mai lo farà) della sua esistenza  e la faccia risorgere dall’oblio in un modo o nell’altro.

 

Scritto e diretto da  Gianfrancesco Lazotti (già autore di Tutti gli anni una volta all’anno) è un film  con il quale il regista tenta il difficile incrocio fra dramma e commedia attraverso la fusione dei generi, e lo fa con esiti davvero molto interessanti, perché il risultato è una pellicola fresca, inusuale e autentica, che ha soprattutto  il non secondario merito di riuscire a mostrare il pudore dei sentimenti con  delicatezza e discrezione, oltre che il coraggio di rinunciare a sconvenienti coinvolgimenti melodrammatici inopportunamente ”lacrimogeni” che potevano banalizzare l’originalità delle scelte, poiché Lazotti dribbla con coraggio tutte quelle trappole consolatorie altrettanto deleterie che il soggetto poteva  anche prevedere, se la materia non fosse stata  dominata con adeguata attenzione, per regalarci un’opera minimale, ma soffusa di profonda e sofferta disperazione, che – come qualcuno ha già osservato prima di me  (mi riferisco alla critica a suo tempo apparsa su Film Tv) – nasconde al suo interno persino qualche fecondo germe di  velata epicità (c’è solo qualche piccola concessione alla retorica – ed era forse inevitabile che accadesse -  quando a un certo punto una identificazione troppo emotiva con le vicende dolorose della protagonista, rischiano di condizionare un po’ troppo il clima generale insolitamente e problematicamente leggero e accattivante, ma non di tale entità da “guastare” la resa complessiva di un lavoro ben congegnato e soprattutto ottimamente strutturato).

Infarcito di  pertinenti e “riconoscibilissimi” rimandi ai romanzi d’appendice dell’ottocento, lo potremo definire quasi una versione moderna e virata al femminile del Cyrano di Bergerac, che se non raggiunge la potenza espressiva e poetica del capolavoro di Rostand (qui tutto è più elementare e “privato”), mantiene però dell’originale – facendo le dovute proporzioni - la levità del tocco e la semplicità esplicativa,  entrambe caratteristiche fondamentali per poter penetrare davvero negli imbarazzi amorosi conseguenti al gioco degli “scambi di persona e di identità” (che anche qui - come nel modello di riferimento - hanno un ruolo centrale per gli sviluppi della vicenda) e riuscire così a portare in assoluto primo piano i desideri banali e le prospettive (anche “inevase”) di possibili felicità future, che riguardano (e coinvolgono) più o meno tutti i personaggi.

 

La struttura del racconto non è lineare, ma si procede a incastri come se si trattasse di un mosaico in progressiva ricomposizione che solo alla fine mostrerà allo spettatore le sue definitive sembianze.

La cornice è corposa, intesa  e suggestiva, e anche in questo caso, la bontà del risultato si appoggia giustamente su una sceneggiatura scritta  con sapiente competenza e che risulta altrettanto ben articolata negli scoppiettanti dialoghi e negli sviluppi narrativi, che solo una solida base di pregresse  conoscenze cinematografiche poteva garantire e che Lazotti (regista e sceneggiatore di “originali televisivi” – le cosiddette “fiction” dei giorni nostri - ma a inizio carriera anche “competente” aiuto regista di celeberrimi “numi tutelari” come Scola, Risi e Steno) mostra di possedere in pieno, e soprattutto di essere in grado di utilizzare con pertinente maestria.

Il suo, come già detto,  è un progetto  ambizioso e “atipico” che parla,  anziché di  inaccettate “deformazioni fisiche”, di forzate  “convivenze con la malattia” (non una semplice influenza ovviamente, ma qualcosa di più definitivo e irreversibile) e dell’impatto psicologico che tale patologia “disabilitante” determina – condizionandola – sulla costruzione delle relazioni sentimentali, generando non solo fragilità, ma anche insicurezza e paura dell’abbandono, proprio per il timore, da parte di che ne è affetto, di non sentirsi (o non potersi mostrare, il che poi all’atto pratico è la stessa cosa o quasi e in ogni caso produce più o meno gli stessi effetti) all’altezza delle aspettative.

L’ambientazione è romana, ma una Roma di estrazione proletaria e  problematica, dentro alla quale le figure che vi si muovono e agiscono, sono tutte – sia pure in differente maniera - pesantemente segnate dagli effetti (anche devastanti) di una sclerosi multipla in progress, perché proprio di questo si tratta, anche se il tono non ha la pesantezza e la drammaticità che spesso accompagna tematiche ”estreme” di tale natura,  e il regista risulta prioritariamente interessato a riprodurre  più che la sofferenza fisica e le conseguenze che ne derivano, la “esposizione dei sentimenti” espressa (come in Rostand) utilizzando la forma “epistolare” che necessita ancora di più di una attenta e convincete definizione dei caratteri, soprattutto nella “organizzazione” dei tradimenti e degli inganni.

 

La protagonista della storia è Katia, una giovane ragazza costretta sulla sedia a rotelle dalla distrofia muscolare e che – proprio come Cyrano – sta aiutando la sua migliore amica (Rosalba) a scrivere (senza dichiarare la differente fonte ispirativa) appassionate lettere d’amore al suo fidanzato, Danilo, un pregiudicato che sta scontando in carcere trent’anni di detenzione per omicidio volontario. Ma anche quando Rossella, rendendosi conto che in quella storia non esistono prospettive concrete di vita in comune si stufa e “declina”, Katia - a sua volta segretamente innamorata dell’uomo – deciderà di continuare in proprio, ma senza confessare il cambio di mittente, quella “relazione” sentimentale traslata fatta di poetiche missive e poco altro.

La vita un po’ al limite di Danilo dunque, ma anche e soprattutto il prorompente, coraggioso ottimismo  di Katia, costretta a vivere “dalla vita in su” appunto, ma non per questo meno propositiva e fiduciosa in una possibilità di futuro.

 

Dalla vita in poi non è “grande cinema” ma si conferma un’operina elegante, fragile e per certi versi davvero singolare, nel suo narrare l’importanza di un rapporto a distanza, che attinge con ottime conoscenze (e altrettanti soddisfacenti risultati) agli stilemi classici della letteratura romantica in voga nei secoli scorsi (vedi il mio riferimento iniziale  ai romanzi d’appendice dell’ottocento). Il tutto però vissuto “in prima persona” da personaggi assolutamente contemporanei, pieni di titubanze e di indecisioni e a loro modo ribelli e sinceri, ma soprattutto a disagio con le ipocrisie del mondo, e per questo capaci non solo di opporvisi, ma anche di rimettersi in gioco su tutti i fronti compreso quello “sentimentale” e di farlo senza tentennamenti o timori, costi quel che costi sfidando le convenzioni e gli opportunismi di facciata.

Gli interpreti a loro volta convinti, appassionati e pienamente conquistati dai rispettivi ruoli che devono rappresentare sullo schermo (Cristiana Capotondi, Filippo Nigro, Nicoletta Romanoff e  Carlo Buccirosso), sono davvero elementi essenziali per dare credibile consistenza a quelle  esistenze un po’ “borderline”, e si confermano non solo in sintonia, ma assolutamente all’altezza del compito loro assegnato, tanto che con la loro lieve  ma intensa partecipazione, forniscono un positivo contribuisco alla complessiva riuscita di una pellicola dalla struttura  forse un po’ schematica, ma delicata nel tratteggiare colpe, menzogne, amicizie e “amorosi inganni”che - come ha scritto Domenico Barone, è anche un racconto di sogni spezzati, un ritratto di solitudini marginali che si sfiorano ma senza esasperazione, nell’innocenza ritrovata di un amore finalmente e inaspettatamente corrisposto.

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