Regia di Cristi Puiu vedi scheda film
Viorel Ghenghea (Cristi Puiu) è un uomo sulla quarantina che vive alla periferia di Bucarest. È un ingegnere metallurgico e lavora come consulente presso un impianto petrolchimico della capitale. Stanco e sottopagato, Viorel cerca di arrotondare facendo altri lavoretti. Ha due figlie piccole a cui non vorrebbe far mancare niente, avute dal matrimonio con Gina (Clara Voda), un rapporto ormai finito ma che lui vorrebbe rivitalizzare. Alla morte del padre, la madre (Valeria Seciu) si risposa con Doru (Valentin Popescu), un uomo che a Viorel non sta affatto simpatico. Ha due suoceri (Catrinel Dumitrescu e Gelu Colceag) a cui sembra addebitare le massime colpe del suo divorzio. È avvolto da una cappa di tristezza Viorel. Da dove provenga di preciso non si sa. Ma lui vorrebbe porgli rimedio. A modo suo.
“Aurora” di Cristi Puiu rappresenta il secondo capitolo di “Sei storie alla periferia di Bucarest” (dopo “La morte del signor Lazarescu”, l’esordio alla regia di Puiu), un’opera di impronta “Neorealista” che mette al centro del racconto l’esistenza dell’uomo qualunque indagandone il rapporto relazionale che intrattiene con le condizioni socio-economiche Romania, con la propria famiglia, coi propri sensi di colpa, con il proprio passato, con le cicatrici interiori. “Aurora” potrebbe definirsi come un noir esistenzialista che affoga nell’approccio realista tutto il suo potenziale attrattivo. Un film attraversato da un alone di insondabile amarezza, anti narrativo per scelta stilistica e spoglio fino all’eccesso per struttura della messinscena. Monocorde e monocolore (da qui deriverebbe per contrasto la scelta del titolo), segue con rigore quasi documentaristico la vita rabbuiata di Viorel, fino a quando non decide di dare una voce riconoscibile alle ragioni del suo dolore interiore.
Come quasi sempre succede nei film del “nuovo” cinema rumeno, la Romania fa sempre da sfondo invasivo per lo sviluppo delle storie, con la sua rivoluzione abortita e il suo carico di aspettative rimaste inevase. Un paese squilibrato che naviga a vista nel mondo globalizzato, offrendo ai suoi cittadini solo occasioni indistinte di benessere, solo illusioni effimere di riscatto. Viorel è anche il prodotto di tutto questo. Oltre che delle sue disavventura personali. Lui svolge un lavoro sottopagato, vive in un paese che non offre molte soddisfazioni ai suoi titoli professionali, è appena uscito da un matrimonio che non gli dispiacerebbe rimettere in sesto e sembra non aver superato del tutto la perdita del padre. Questi sono gli unici indizi fornitici da Cristi Puiu sulla vita dell’uomo, necessari e sufficienti per definire i contorni caratteriali di una personalità problematica. Ma non abbastanza per farci capire le ragioni profonde che indirizzano i comportamenti di Viorel, che lungo tutto il film si muove con gelida precisione dando corso ad un insano disegno vendicativo. Le immagini non spiegano le azioni di Viorel, ma ci aiutano a metterle in relazione con la lenta attesa che le precede, fatta di momenti minimi che le descrivono minuziosamente senza però ricondurle ai moventi originari. C’è una sorta di vuoto pneumatico che è il cinema che deve prendersi la briga di colmare. Viorel è il tipo d’uomo che si impegna a tirare avanti nonostante tutto, ma è come se una forza invisibile gli chiedesse di chiudere i conti con tutto ciò che ha reso pericolosamente precaria la sua esistenza. Ma Puiu non fa prendere mai alla narrazione una piega diversa da quella data dai canoni estetici di partenza. La regia rimane calma e inespressiva, sempre a debita distanza dall’azione quando si manifesta in scatti di repentina esplosione. Il film vive di scarti emozionali, di cose importanti che si fanno udire più che vedere, di insignificanti accadimenti minimi, preferendo far risaltare i silenzi che evocano dolorosi disagi emotivi piuttosto che l’esplicazione della rabbia fatta rimanere fuori campo. È così che all’insensatezza dei comportamenti di Viorel viene attribuito uno specifico senso cinematografico. È così che Viorel diventa l’emblema dell’uomo qualunque avvolto e coinvolto nell’insensato grigiore della periferia di Bucarest.
Con questo suo secondo film, Cristi Puiu si conferma un autore di indubbio spessore, con una precisa idea di cinema e con le capacità di metterla in pratica. Un aspetto che emerge evidente è il fatto che lui preferisce usare le ellissi narrative con calcolata parsimonia. Nel suo primo lungometraggio, il bellissimo “La morte del signor Lazarescu”, le quasi tre ore di film ricalcavano quasi fedelmente tutta la durata del calvario ospedaliero dello sfortunato protagonista. In “Aurora”, invece, seppur non si arriva ad adesione così completa, rimane l’intenzione di non allontanare troppo il tempo effettivo dal tempo narrativo. Le azioni spesso si protraggono oltre il necessario, così come i dialoghi, assumendo nell’insieme una lunghezza estenuante che la macchina da presa si premunisce di riprendere in tutta la sua interezza. Seguendole nel loro sviluppo anche quando vanno fuori campo. Il tentativo è certamente quello di aderire il più possibile alla vita di Viorel, di catturarne gli slanci emotivi, lo sconforto esistenziale. Il risultato è la prova che ogni tentativo di catturare la verità al cinema si infrange contro l’impossibilità di carpirla in tutta la sua profonda interezza. C’è sempre uno scarto tra il vedere una vita votata al declino e il cercare di rappresentarne i moventi. Puiu filma questo scarto, applicando l’idea più consona di realismo che (forse) si può applicare al cinema (suggeritaci, forse, da tutta la parte finale del film) : le immagini cinematografiche non spiegano il senso dei comportamenti di Viorel appunto perché è proprio della vita non avere una spiegazione chiara per ogni cosa. Cristi Puiu si conferma dunque un autore centrale del cinema rumeno contemporaneo, un cinema con una marcata attitudine al realismo che si combina ottimamente con il potenziale immaginifico ed interpretativo fornito dalla rappresentazione cinematografica.
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