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Aurora

Regia di Cristi Puiu vedi scheda film

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La recensione su Aurora

di OGM
6 stelle

La realtà si trascina senza senso. Non è certo che Cristi Puiu volesse dirci questo. Ma dopo tre ore di pellicola in cui niente accade, a parte a quattro omicidi dalla dinamica inquietante, siamo naturalmente indotti a crederlo. Viorel Ghenghea è un ingegnere romeno sulla quarantina, che lavora come consulente presso un impianto petrolchimico di Bucarest. Vive da solo in un piccolo appartamento - probabilmente quello della sua infanzia – che sta predisponendo per imminenti lavori di ritinteggiatura.   Ha divorziato dalla moglie Amalia Livinski, da cui ha avuto due bambine. Ha una relazione con un’altra donna, a sua volta separata e madre di una ragazzina. Sua madre Pusa, dopo la morte del marito, si è risposata con un certo Doru Stoian, che Viorel non può vedere. Questo è ciò che, a fatica, si riesce a ricostruire nel corso del racconto.  Tutto il resto è lentezza  a perdere, senza il gusto dell’attesa, né quello della noia, perché, nonostante l’inconsistenza dell’azione, lo scorrere tempo risente dell’attrito con la banalità, con la miopia di chi non sa che pesci pigliare e per questo si guarda intorno  e procede a tastoni. Questo film vuole costringerci a guardare Viorel mentre vive, istante per istante, anche se ciò significa partecipare alla stanchezza che accompagna il tratto terminale di un cammino, all’arrancare di un treno che, a motori spenti, compie svogliatamente gli ultimi metri di un binario morto. Un’interpretazione che, per altro, si riesce a dare solo a posteriori, alla luce della rivelazione finale, dopo che la prolungata mancanza di sapore ci ha intorpidito il pensiero e la percezione. Il nulla che invade l’esistenza e si impenna, in maniera atroce ed improvvisa, intorno a un singolo gesto devastante: questo è l’effetto alla Lars Von Trier che Cristi Puiu non arriva a fare proprio. Il suo stile, pur costantemente distaccato,  manca di freddezza e fallisce l’obiettivo dell’essenzialità, che rimane allo stadio di un’ipotesi teorica, senza giungere a concretizzarsi in un riconoscibile connotato estetico. Anche l’idea dell’isolamento, dell’esistenza suddivisa in compartimenti stagni (rappresentati dagli interni delle numerose case che, per Viorel, rappresentano altrettante tappe del suo viaggio senza sbocco) si coglie soltanto fra le righe, nella struttura esteriore di un’ambientazione che risulta complessivamente anonima. Viorel sta togliendo liberando le stanze dai mobili e dagli oggetti, apparentemente per mettere la tappezzeria alle pareti. In effetti sta, metaforicamente, “sbaraccando” dalla propria vita  in generale; il fatto è che, però, purtroppo, non ci è dato modo di capirlo in itinere. Questo film sembra voler assistere, imbelle e taciturno, ai preparativi dell’inevitabile, facendo finta di non saper nulla, né di poter intuire alcunché. Nessun indizio, nessuna allusione, solo una indifferente e dispersiva successione di eventi insignificanti, difficili da inquadrare e da mettere a fuoco. L’obiettivo insiste nel mostrare, ma si astiene dall’illustrare; la constatazione del momento prende il sopravvento sulla logica dell’insieme e così anche il contesto sfuma nell’indeterminatezza.   La sceneggiatura commette l’errore di voler inseguire il vuoto in una corsa a briglia sciolta, senza tracciarne col dito il percorso, né disegnarne mentalmente i contorni: a quell’assenza di contenuto manca una forma che rechi impressa l’impronta del dramma e ci offra un appiglio per immaginare il dolore che l’ha scatenato. Questo Aurora, in definitiva, ci lascia completamente soli di fronte a ciò che non può spiegarsi da sé: un caso singolare, che affonda le radici in una storia personale sicuramente complessa, e probabilmente interessante, e che nessuno, però, ci racconterà mai.

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