Regia di Radu Muntean vedi scheda film
La camera fissa, ferma sulla vita. Una vita di cui si parla, ma che è sempre altrove, dentro i discorsi, però fuori dalla vista. Si discute di una sorella assente, di un oggetto che non si può vedere perché è ancora impacchettato, di una persona che non esiste, ossia di un socio in affari immaginario, che serve come copertura alle scappatelle di un marito infedele. L’esistenza è scandita da lunghi istanti, in cui accade tutto, eppure non accade niente, visto che le azioni riescono, per tanti minuti, a restare confinate all’interno del ristretto campo visivo della macchina da presa. Tutto è compresso nell’immobilità dovuta all’imbarazzo, e nelle ipotesi che si accalcano sul terreno accidentato delle incertezze. Si parte dal presupposto che ogni cosa è sbagliata, e ciò non costituisce solo la premessa, ma è anche la conclusione del ragionamento. Si mente e si finge, e non ci si comprende, si è distanti e non si fa nulla per avvicinarsi. La quotidianità può essere futile, ripetitiva ed insulsa, ed innumerevoli film lo hanno adottato come assunto: un assunto che, d’altronde, è facile da suffragare, perché basta aderire alla realtà per dimostrarlo. Pochi, però, riescono - come quest’opera di Radu Muntean - a fare della normalità il teatro di un gioco tanto perversamente ostile alla felicità, in cui ci si affanna nelle faccende di ogni giorno per far sì che, in quell’inferno di noia e banalità, nulla vada mai nel verso giusto. Nella vicenda di Paul Haganu, che tradisce la moglie con la giovane dentista della figlia, sotto la superficie delle ipocrisie, dei contrasti e delle ansie si avverte un masochistico gusto per la rassegnazione, che asseconda le avversità nel procurare sofferenza e rendere la vita difficile, a sé e agli altri. Non c’è sviluppo, ma solo una testarda involuzione: un rifiuto ad aprirsi verso l’esterno che, in questo film, si traduce nella scelta di ambientazioni chiuse e riservate, come le stanze di un appartamento, la sala di uno studio medico, l’abitacolo di un’automobile. Nella Romania del postcomunismo, che ha svuotato le piazze e riempito gli spazi privati, alla dimensione popolare se ne è sostituita una di carattere individuale e familiare, priva di riferimenti universali che facciano da collante. L’avvento della libertà, diversificando il mondo, lo ha di fatto disperso in mille direzioni divergenti: le linee di fuga di un’identità nazionale che naufraga nel senso di appartenenza all’Europa, con il suo mercato comune, la sua moneta unica, la sua omogeneità forzata. A venir meno è la garanzia di una vita controllata, costruita su misura per ciascun cittadino, in cui ognuno ha ciò che gli spetta, e nessuno si deve preoccupare di dover decidere tra uno snowboard troppo lungo ed uno dai colori inadatti. La possibilità della scelta e del cambiamento porta con sé il rischio, la prospettiva di un salto nel vuoto, il pericolo dello sbandamento, che la stabilità economica non può in alcun modo scongiurare. Così il dramma può avvenire all’improvviso, sotto Natale, pochi giorni prima che i parenti e gli amici si riuniscano per stare insieme, scambiarsi i doni, mangiare in abbondanza, divertirsi e passare le vacanze sulla neve. La nuova realtà è cangiante e fragile come il cristallo, si può riempire di venature, e tuttavia nasconderle con i suoi splendenti riflessi di luce. Anche la crisi, la rottura di un rapporto coniugale può, per un attimo, restare sepolta sotto i fragori dei fuochi d’artificio e le montagne di cibi e di regali. Tuesday, After Christmas introduce, nel panorama dell’Est europeo, una nuova forma di nudità dell’anima: una nudità che non riecheggia più nel vuoto creato dall’essenzialità e dall’uniformità imposte per legge, bensì si veste del vacuo fruscio del benessere, diventando un problema, un intoppo, uno scandalo, e dimenticandosi di essere nata come un lacerante dolore.
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