Regia di Olivier Masset-Depasse vedi scheda film
Tania Zimina (Anne Coesens) è un’immigrata russa che vive in Belgio insieme al figlio Ivan (Alexander Golncharov) di tredici anni. Nonostante viva nel paese fiammingo da otto anni, i loro documenti non sono mai in regola e per questo sono costretti a vivere in clandestinità. Un giorno succede che Tania non riesce a sfuggire ad un controllo di polizia e mentre il figlio Ivan riesce a divincolarsi lei viene portata in un centro di detenzione per immigrati. Qui conosce la realtà di un luogo dove i diritti umani sono calpestati per lasciar il posto al mantenimento conservativo dell'ordine sociale.
“Illegal” del regista belga Olivier Masset-Depasse ci racconta della storia di una donna che si fa simbolo delle innumerevoli persone sparse per il mondo che ovunque si trovino si sentono indesiderate per il paese che le “ospita”. Il film inizia forte, chiarendo subito i termini etici della questione. La macchina da presa ritrae Tania mentre sta mettendo in pratica il proposito di impedire che gli possano essere prese le impronte digitali. Quei polpastrelli sottoposti alla tortura del fuoco rendono chiaro sin da subito la relazione tra ciò che la donna è disposta a fare pur di mantenere il poco di agiatezza che è riuscita a conquistarsi e il mondo di fuori. Una lotta perenne tra chi intende nascondere anche a sé stessa la propria identità e chi guarda solo al rigido rispetto dalla legge per trattare con dignità le persone. L'inferno è in terra per quella parte di umanità che non ha le “carte in regola”, costretta a vivere in clandestinità in un mondo che concede patenti a tempo, tra persone che ti domandano sempre e solo cosa fai e ma mai ti chiedono chi sei, che ti considerano buono fin quanto sei commercialmente conveniente e non come essere pensante.
Lo stile del film oscilla tra quelli dei fratelli Dardenne e Ken Loach. Dagli illustri conterranei e rinvenibile il modo certosino con cui Olivier Masset-Depasse si concentra sul corpo addolorato di Tania, sulla sua emotività compromessa e sulla sua forza caratteriale. Certo non raggiunge il rigore formale dei Dardenne, ma ne conserva alcune premesse poetiche. Dal maestro inglese, invece, lo sguardo etico che aleggia sulla vicenda raccontata ricavabile dal fatto che si finisce per simpatizzare con la protagonista, non tanto perché si è orientati in maniera artificiosa ad assumere una posizione “partigiana”, ma perché uno spaccato di realtà viene presentato per quello che è in una maniera abbastanza attendibile. Perché, ad essere messo in discussione non è il rispetto della legge come requisito importante per la convivenza civile fra le persone, ma il come e il quanto una legge contribuisca ad instaurare tra di loro una modalità di rapporto che è più di tipo burocratico che umano. Perché una qualsiasi legge può essere sempre modificata quando non risponde bene ai requisiti minimi da ricercare per le “buone” relazioni sociali. Ma quello che invece non può in alcun modo essere accettato, soprattutto se ci si vuole beare dell'attributo di civiltà, è l'idea che dal mancato rispetto di una norma possano derivare azioni disumane. Perché è proprio la disumanità che comincia già dal fatto di considerare un immigrato, più un numero da tenere aggiornato nella tabella dell'ordine sociale che una persona in carne ed ossa, a generare la premessa affinché le maglie farraginose di certa burocrazia soffocano chi ci finisce dentro. Perché sono le carte bollate a dare la misura di quanto Tania sia disposta a sacrificare della propria originale identità pur di garantire al figlio una più pacifica integrazione nel paese ospitante. Non è un caso che per tutta la durata del film la macchina da presa segua Tania senza mai farci sapere nulla della sua vita. Il regista belga genera in questo modo un’assonanza di comportamento con le autorità di polizia, che guardano al qui e ora della donna senza mai scavarci dentro, che la osservano resistere senza mai chiedersi il perchè.
Se una donna si nasconde dietro una falsa identità, se è costretta a segretare la presenza di un figlio e si rivolge a dei figuri poco raccomandabili per avere documenti falsi, ha sicuramente qualcosa da nascondere e si comporta certamente in maniera illegale. Ma una condizione di umana normalità dovrebbe partire dal considerare l’amore per la dignità umana come un fatto inderogabile, sapere che ogni persona ha una storia da raccontare che andrebbe ascoltata, non repressa in nome dell'unico modello di vita che è bene promuovere.
Con riferimento alla già accennata assonanza poetica con il cinema dei fratelli Dardenne, “Illegal” è un vero e proprio pugno nello stomaco, una fotografia impietosa del reale che ci viene offerta da uno dei luoghi più “civili” del pianeta, capace di darci l'idea di quanto la merda sia ovunque anche se non equamente distribuita, che la vera differenza sta nel fatto che ci sono luoghi dove è messa in vetrina perché anche questo serve come calmiere sociale, mentre in altri è tenuta nascosta sotto il fatidico tappeto, lontana dai salotti buoni.
La regia segue uno stile asciutto, con pochi ammiccamenti allo spettacolo nonostante l'ambientazione prevalentemente carceraria ne offra più di qualche occasione. La macchina da presa di Olivier Masset-Depasse entra in carcere per immigrati e ci mostra quanto sanno essere malvagi i “buoni”, e lo fa mantenendo la giusta distanza tra l’umanità offesa e la resistenza che non si rassegna. Ecco, è l'onestà dello sguardo la caratteristica che credo meriti di essere messa in risalto per questo bel film.
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